21 giugno 2010

LA GREEN ECONOMY: UN ALIBI?


 

Green economy sembra una combinazione magica e un mantra per il marketing dentro a mercati asfittici che, nella recessione, rivelano tutti i limiti intrinsechi a un modello di sviluppo quantitativo e, illusoriamente, illimitato nonché i limiti delle simulazioni delle bolle speculative a carattere finanziario.  Non è detto che tutto quello che è naturale corrisponda alla green economy. Ad esempio i biocombustibili come il bioetanolo proveniente dalla fermentazione dell’amido di mais sta generendo una competizione per la disponibilità di terreni coltivabili con i prodotti della filiera alimentare con effetti squilibranti, sia nell’uso e nell’impoverimento dei terreni, sia sul prezzo del mais più in generale.

La stessa cosa vale per i prodotti OGM, che possono generare modificazioni geniche indesiderate con esiti imprevedibili sui cicli alimentari e sulle conseguenze per la salute, nonché della biodiversità. L’alterazione più evidente è dovuta alla brevettabilità delle sequenze geniche e alla loro conseguenza sulla ricerca, la sua trasferibilità nella produzione e la sua condivisione e riproducibilità, visto che i semi delle piante modificate geneticamnte possono essere resi sterili. Più che la verniciata di verde ai manufatti e ai servizi tradizionali la green economy dovrebbe essere un novo approccio all’analisi econometrica della produzione, capace di mettere in relazione la dimensione economica e quella sociale con condizioni di sostenibilità e di qualità dentro ai cicli dell’aria, dellacqua, dell’energia e del diritto delle attuali e delle future generazioni di avere un ambiente vivibile e la disponibilità di risorse quando sono limitate e non rinnovabili.

Ciò significa sia tenere conto dei consumi di energia per i prodotti e i servizi, sia della natura dell’energia utilizzata, ad esempio quella rinnovabile. Significa pensare quali tipi di emissioni vengono generati dal prodotto in uso, come l’auto, o dal servizio prestato, un impianto di risalita ad esempio. Piuttosto che tenere conto del consumo di acqua necessario o della qualità dei reflui generati. E’ chiaro che ogni prodotto va considerato dentro ad un ciclo di vita, cioè anche quando diventa un rifiuto, quindi di che tipo: riciclabile, biodegradabile o, invece, tossico. Occorre anche considerare la relazione tra il prodotto ed i consumatori sotto il profilo della salubrità, perciò  contano la qualità di un tessuto e dei coloranti di un abito, piuttosto che delle vernici di un elemento di arredo o di un elettrodomestico, per non dire dei materiali con cui è fatto un edificio o un appartamento.

Il principio di precauzione diventa quindi un elemento di garanzia della sostenibilità nonché di stimolo a una considerazione della relazione complessa con i cicli ambientali e con il loro equilibrio evolutivo: più ricerca dunque e meno azzardi miopi, come è stato per il nucleare, piuttosto che per l’amianto, per le trivelazioni in alto mare piuttosto che per la guerra all’Iraq per il controllo dei giacimenti di combustibile fossile. La green economy richiede una compatibilità con un’etica della responsabilità, verso il vivente e verso la capacità di consentirgli un futuro. E’ evidente che è richiesta una riorganizzazione dei modelli produttivi e di quelli di consumo, con una diversa valutazione dell’impronta che essi lasciano sul pianeta, è altresì chiara la necessità di accompagnare questo nuovo indirizzo, verso un modello di sviluppo sostenibile e di qualità ambientale e sociale, con politiche pubbliche coerenti sia sul piano normativo, quindi dei controlli, sia sul piano degli incentivi economici e fiscali che dell’organizzazione urbana delle città, dei loro spazi e dei loro tempi. In questo senso devono cambiare i criteri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio-WTO come le logiche energivore e consumiste che trainano il legittimo auspicio della Cina ad avere un modello dei consumi come quello occidentale.

Qui trova il suo limite l’accezione “Paese in via di sviluppo”: non solo perché non ci sono le risorse disponibili per lo stesso sviluppo, a iniziare da quelle fossili e dall’acqua, ma perchè quel tipo di sviluppo ha messo in luce problemi di salute e di inquinamento non desiderabili. L'”American Recovery and Reinvestment Act del 2009″, su cui ha puntato la presidenza Obama per l’uscita dalla recessione e dalla dipendenza dal petrolio è il contributo più chiaro agli accordi sul clima di Copenhagen e a una nuova tipologia di prodotti e servizi per un mercato sostenibile. Infatti la Cina è tra i principali produttori di pannelli fotovoltaici. Questa è green economy e dovrebbe essere un buon esempio anche per l’Italia, dalla filiera del design alle politiche fiscali ed energetiche del Governo.

 

Fiorello Cortiana



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