14 giugno 2010

SOGNO IN VIA PAOLO SARPI


 

Esco di casa. Nessuno che piange. È un giorno come tutti gli altri, nulla di particolare. E continuo a non vedere nessuno per strada che si commuova. Di niente. Nessun ragazzo che è stato lasciato dalla fidanzata, nessun precario che ha appena perso il posto di lavoro. Passo perfino di fronte a una chiesa di fronte alla quale è appena uscita la salma di un defunto. Gli occhi dei presenti sono asciutti. Impassibilità. Nella mia zona i volti sono bianchi. Caucasici. L’abbigliamento è occidentale e le chiese cattoliche non si contano. Nella mia zona. Vado al lavoro. Sto in ufficio le mie otto ore e faccio più o meno quello che faccio tutti i giorni da dieci anni a questa parte. Non chiedetemi nulla perché non saprei spiegarvelo.

Tutto scorre nella mia città a compartimenti stagni. Scivola liscio come l’olio. Nella mia città che non teme la morte, nemmeno per malattia. Perché la libertà di una zona è la libertà di tutte le altre. Il federalismo si è fatto cittadino, l’indipendenza è condominiale e l’amministrazione sovrana.

Insomma faccio le mie otto ore e improvvisamente, come sono entrato, esco dall’ufficio ed è sera. Mia moglie con i bambini è fuori città. Sono andati al mare per sottrarsi al calore milanese qualche giorno. Non ho voglia di tornare a casa. Faccio due passi. È tanto che non viaggio. L’Expo ci ha cambiati. Io me lo ricordo bene, l’Expo. Improvvisamente non c’è stato più bisogno di uscire, perché diventò definitivo e permanente. Riuscì così bene che si decise di racchiudere il mondo in una stanza: Milano. Perché spendere soldi inutilmente per prendere aerei e treni e affaticarsi fuori dal paese. È tutto qui, in casa. E anche più bello. Milano è un grande Expo.

Decido di visitare un’altra zona. Sono indeciso tra il Sud Italia e mangiarmi un arancino o qualcosa di nuovo. Non sono mai stato in Cina. Sì, la Cina deve essere bella. Come diceva quel tale? “La Cina andava piano, ma lontano.” Lontano. È solo a dieci minuti! Vado. Per raggiungere la Chinatown devo attraversare la Scandinavia e la Groenlandia e così è tutto un via vai di Carta d’Identità. “Salve. La ragione del suo viaggio?” “Volevo mangiare cinese.” “Per quanto pensa di soggiornare?” “Il tempo di mangiare.” “Chiaro. Una firma qui e un’altra qui. Grazie. Buona permanenza!” “Grazie a lei.”

Passo la dogana ed eccomi finalmente in Cina. Incredibile quanto poco si conosca la propria città. Improvvisamente mi trovo immerso in uno scampanellio continuo di biciclette e qualche migliaio di nanetti con gli occhi a mandorla. Prendo una cartina. Cerco di fermare qualcuno per farmi consigliare un buon ristorante, ma nessuno capisce la mia lingua e tantomeno accenna a volersi soffermare a darmi indicazioni. Incontro pochi turisti. Qui solo il cielo è quello milanese. È cambiato anche il suolo, le case. Eppure mi ricordavo tanti palazzi d’epoca quando ero venuto da piccolo. Li avranno spostati da noi. Buffi i cinesi. Non si guardano, non si parlano, sembrano macchinine, giocattoli. Camminano dritti per la loro strada e guai a chi li distrae. Dopo dieci minuti credo già di essermi perso. Nemmeno un cartello in italiano. Strano come cambiano le cose in poco tempo. Papà si lamentava sempre dei cinesi. Diceva che erano ovunque. Aprivano sempre più negozi in giro per Milano. Parlava continuamente di certi centri per massaggi. E ora sono tutti qua, ben raggruppati. In effetti non mi ero più posto il problema di dove fossero finiti, tutti quanti.

Mi arrendo a ricevere un buon consiglio e mi fermo nel primo ristorante che trovo, quello che mi sembra più pulito e a modo. Peccato che ci sia un ristorante ogni tre civici. Ma che civici? Ora che ci faccio caso non ne ho visto neanche uno! Ma come fanno questi a orientarsi? Insomma entro e quattro cinesi sorridenti si prendono la briga di accompagnarmi a uno dei tanti tavoli liberi. Parlano tutti cinese si fanno capire (o per lo meno ci provano) a gesti. Tanto che finisco il dessert e ancora non so bene cosa abbia mangiato, sebbene debba ammettere che fosse tutto abbastanza buono.

Mi alzo, faccio per andare a pagare e poi la vedo. Lì in un tavolino in fondo alla sala. Una giovane ragazza cinese. Con la testa appoggiata sul legno piange. A singhiozzi, come una bambina, silenziosamente, impercettibilmente. Mi rimetto il portafoglio in tasca e vado adagio verso di lei. Da quanto tempo non vedevo nessuno piangere. E come sono belle le persone quando si commuovono. Non capisci se sono felici o no e in quel momento sono genuine. Mi accomodo di fianco a lei, senza dire una parola e mi accorgo che è proprio bella. Mi sembra di conoscerla da una vita. Le passo dolcemente una mano sui capelli e lei alza la testa e mi guarda. La abbraccio e lascio che le sue lacrime righino la mia divisa da rondista. Non sono poi così male questi cinesi… sorrido.

E mi sveglio. È domenica mattina. Sono in camera mia. Tra le lenzuola bianche e il silenzio di una Milano assonnata e candida. Mi volto e scopro di fianco a me un corpo femminile. Tra le lacrime. Le do un colpetto per svegliarsi. Apre gli occhi. È la ragazza del ristorante. È mia moglie. “Yu Lin. È stato solo un brutto sogno.” Lei si asciuga le lacrime. Io la stringo forte a me. “Un brutto sogno”.

 

Giulio Rubinelli

 


 



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