14 giugno 2010

LA LUNGA MARCIA: ORIENTEERING TRA VENDOLA E PD


 

Per chi la galleria degli appellativi della sinistra più radicata l’ha attraversata tutta, col piglio orgoglioso di uomo del Sud. Passando dal primo piano formato “rosso”, nella sua accezione più ampia, al taglio decisamente più schematico di comunista doc. Dalla prospettiva revisionista all’orizzonte idealista. Dal limbo della frontiera estrema fino al battesimo, addirittura, di catto-comunista. Per chi ha respirato sin da piccolo aria di rivoluzione, nel senso più autentico e filosofico del termine, fino a dirsi nemico dichiarato dello stalinismo e convinto sostenitore delle tesi gramsciane. Pur rimanendo saldamente ancorato alle pietre d’angolo del cattolicesimo praticante. La predisposizione alla “lunga marcia” diventa elemento intrinseco e culturale, d’identità e di testimonianza, per un percorso da leader largamente riconosciuto e pervicacemente perseguito.

La marcia verso il 2013 intrapresa da Nichi Vendola, presidente riconfermato della Regione Puglia, nonché candidato vincente “a garanzia diffusa” del centrosinistra, è lontana anni luce dalla mitica tattica di arretramento, che segnò i destini lontani della Repubblica Popolare Cinese. La sua ha tutta l’aria di un’avanzata coinvolgente che, forte di un consenso e di una popolarità a progressione geometrica, sembra avere un’ambizione ben più lunga che l’accredito del suo leader presso il PD, la maggiore forza della coalizione.

Quella di una scientifica azione di spinta, verso questo partito e la sua classe dirigente, a decidersi a trovare una propria malleabilità, per meglio adattarsi alle nuove forme di architettura politica che il sistema maggioritario favorisce. Un partito liquido magari no, ma un partito aperto e leggero è il solo che possa sperare di affermarsi in un contesto moderno, caratterizzato dalla velocità della fibra ottica e dalla prospettiva larga della globalizzazione. Da un pezzo il pensiero lungo ha smesso di essere mono-tono e si è reso agile come il nastro svolazzante di una ginnasta ritmica.

A sentire gran parte degli entusiasmi delusi all’interno del Pd, la sensazione è quella di un partito che d’un tratto ha perso lo smalto giovane e accattivante, acquisito dall’idea di un “partito nuovo” negli auspici dell’avvento veltroniano. Per rimanere, in realtà, la risultante della tanto esorcizzata fusione fredda (Ds + Margherita) e dar vita gattopardescamente soltanto a un nuovo partito. Per di più percepito neanche tanto come tale. Condizione alquanto inadatta ad affrontare dignitosamente il cosiddetto ciclone Vendola.

Lapidarie, a tal proposito, sia le punzecchiature di Sergio Chiamparino: “Lo sbando nel Pd è la riprova che tutto va storto. E la classe dirigente proveniente dalle vecchie esperienze si dimostra ormai inadeguata. E’ indispensabile ritrovare un metodo, per valorizzare la realtà territoriale e punire l’autoreferenzialità”. Che le riflessioni di Franco Cassano: “Non c’è futuro nell’integralismo di partito né in quello dei movimenti. L’esperienza pugliese ci dice che si governa bene solo se si segue un programma che non appartiene a una sola cultura politica, ma mescola insieme elementi della tradizione liberale, cattolica e socialista. Gli elementi più avanzati di questa esperienza stanno proprio qui, non nel predominio della componente radicale, ma nella capacità di sottrarre questa mediazione fra le diverse culture alla logica mortale della spartizione delle poltrone”.

In entrambi è evidente lo sguardo ammonitore verso il Pd e il pensiero verso la rivoluzione culturale possibile e una leadership forte come quella di Vendola. Lo stesso Romano Prodi doveva avere ben presente la realtà pugliese, oltre quella veneta di Galan o lombarda di Formigoni, quando ha lanciato in chiave federalista lo spariglio dei venti “uomini forti”. L’esecutivo nazionale del partito formato dai segretari regionali, eletti con primarie dagli iscritti, ma dotati di maggiore o minore peso politico in base ai voti ottenuti dal Pd nelle loro regioni. Che eleggono a loro volta il segretario nazionale, per decidere insieme linea politica, strategie e candidature. Una zampata destinata a lasciare il segno.

La marcia di Nichi Vendola è cominciata, la bussola indica direzione nazionale, la compagnia di viaggio al fianco s’incrementa passo dopo passo e gli entusiasmi accesi si moltiplicano giorno per giorno. All’ulteriore paradosso nei confronti del centrosinistra, tutto interno al Pd, dove attrae attenzioni e appoggi dal fronte un tempo Popolari/Margherita, mentre è avversato da quello più consanguineo degli ex Pci, che corteggia invece i moderati dell’Udc, il presidente cerca di porre rimedio riqualificando il dialogo a sinistra.

Testimonia la maturazione responsabile e assertiva di una sinistra di governo, che per certi versi prende le distanze dall’obsoleta sponda della lotta fine a se stessa. Raccoglie ovazioni, incitamenti e accrediti dalle assemblee dell’Arci e da quella più nevralgica della Cgil. Ma soprattutto s’impossessa del tema del “lavoro”, riportandolo al centro della sua strategia programmatica.

Il lavoro come “valore costituzionale essenziale”. Quale fondamento del valore riconosciuto dalla Repubblica italiana in luogo di altri fattori in passato determinanti, come la nobiltà di nascita o di ricchezza, ai fini del ruolo sociale dell’individuo (V. Onida). Perché: “Se il lavoro non torna al centro della scena pubblica”, ha ribadito con determinazione al congresso della Cgil a Rimini, “la sinistra non potrà ricostruire la propria capacità di egemonia, non potrà rimettere in piedi il cantiere dell’alternativa e rimettere in piedi un’alternativa al berlusconismo che ha trionfato in questi anni”.

No, non è una marcia da libretto rosso. La marcia di Nichi Vendola è un percorso indicato piuttosto dai quaderni. A illuminarla non sono più le occhiate taglienti del vecchio Mao, ma lo sguardo profondo e i riflessi lungimiranti degli occhiali di Antonio Gramsci. Su cui con leggerezza svolazza la dolcezza ammaliante di un rivoluzionario evangelico come don Tonino Bello.

 

Antonio V. Gelormini



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