14 giugno 2010

A PROPOSITO DEGLI EDIFICI FELTRINELLI A PORTA VOLTA


Si legge con soddisfazione il duro commento del progetto Feltrinelli fatto da Gianni Zenoni (n. 17 di Arcipelago, anno 2010). L’autore ha avuto il coraggio di criticare due architetti noti in tutto il mondo; due primeggianti Archi-star. Sono indubbiamente da condividere le critiche rivolte alle debolissime giustificazioni storiche e topografiche, con le quali i due architetti si sforzano di attribuire un sottostrato culturale alla loro opera, che in realtà Zenoni confuta brillantemente.

Ciò nondimeno è opportuno mitigare il severo giudizio di Zenoni e mettere in evidenza i lati positivi del progetto.

Anzitutto va apprezzata la configurazione volumetrica dei due edifici e la loro convergenza verso i due caselli di Porta Volta. Entrambi presentano un’architettura non volutamente stravagante, non forzatamente spettacolare, non deliberatamente concepita al solo scopo di stupire e di sembrare originale a tutti i costi. Sono queste, al contrario, le irritanti caratteristiche di tanti recenti edifici milanesi: i grattacieli storti della ex-Fiera; le torri inclinate di Rho; le rigonfie emergenze di Rozzano. Gli uffici Feltrinellli hanno forma regolare, composta, ordinata; sono disciplinatamente allineati lungo le strade sulle quali si affacciano; si presentano racchiusi entro un perimetro, sia planimetrico che altimetrico, lineare, ininterrotto, continuo.

Del profilo altimetrico Zenoni dà una pungente definizione e lo chiama “famolo strano”, ossia fanciullo anomalo. Effettivamente la sezione verticale dei due edifici, aguzza e puntata, e gli ultimi piani inclinati come se fossero falde di un tetto, sono poco conformi alla tradizione milanese. Ma gli edifici hanno il grosso merito di non avere coperture piane, di non terminare con terrazzi piatti e lisci; di non essere interrotti improvvisamente da un drastico taglio orizzontale. La parte terminale, disegnata a forma di capanna, denota una visione definita e conclusa del loro profilo, e dimostra che sono concepiti come organismi unitari, aventi un corpo nei piani bassi e una testa nei piani superiori: l’uno e l’altra distinti ma integrati tra loro. Se, al contrario, terminassero con una copertura piana i due edifici sembrerebbero due cataste di strati sovrapposti, elevabili all’infinito, senza linea di arresto; e quindi più simili a oggetti meccanici che non a progetti organici.

Vi è una particolarità che subito si nota: la disposizione diagonale dei grandi portali che costituiscono l’unica struttura portante dell’intera costruzione. I portali, che si ripetono identici per tutta la lunghezza dei due edifici, sono disposti di traverso rispetto all’andamento dei due viali verso i quali i due edifici si affacciano. Tale disposizione trasversale è determinata dal parallelismo che si è voluto ottenere tra le testate dei due edifici, poste l’una di faccia all’altra, e la strada provienente dal Cimitero Monumentale, nonché tra le stesse testate e i due caselli daziari che fiancheggiano quella strada. Le testate dei due edifici, emergendo alle spalle dei due caselli, ne aumentano la visibilità, l’importanza, l’incidenza nel panorama urbano; e nello stesso tempo sottolineano con maggiore evidenza l’asse stradale proveniente dal Cimitero.

Se i portali della struttura portante fossero perpendicolari alle due strade verso le quali si affacciano i due edifici (come sarebbe stato più logico e più consueto), si perderebbe il parallelismo delle due testate con i due caselli, e si formerebbe, interposta tra testate e caselli, una residua e inconclusa area trapezoidale. Per evitare la formazione di questa incongrua e mal definita area, si dovrebbe applicare alle testate dei due edifici un corpo aggiunto di compensazione, il quale avrebbe – è vero – recuperato il parallelismo con i due caselli, ma avrebbero introdotto un’intollerabile anomalia nello schema diagonale della struttura; e avrebbe compromessa la semplicissima idea architettonica dei due progettisti, basata sulla successione unica e ininterrotta di uno stesso portale, ripetuto sempre uguale da un estremo all’altro dei due edifici, e non interrotto da aggiunte o intrusioni incongrue.

L’impostazione trasversale della struttura è ribadita dalla secca interruzione diagonale che taglia l’edificio affacciato su Viale Pasubio, ed è larga quanto l’interesse dei portali strutturali. L’interruzione si trova sul proseguimento dell’antistante Via Maroncelli, la quale, quasi per caso, ha lo stesso orientamento diagonale della strada proveniente dal Cimitero e quindi dei portali che formano la struttura. Chi percorre la via Maroncelli vede in lontananza, attraverso l’interruzione aperta nel corpo dell’edificio, l’ampio giardino retrostante: segno dell’attenzione e della cura tenuti presenti nell’inserire l’edificio all’interno del contesto urbano.

Infine non si può imputare ai progettisti la colpa di aver accorciato l’edificio allineato lungo Viale Montello; di lunghezza molto inferiore rispetto all’edificio complementare allineato lungo Viale Pasubio. E’ facile immaginare la maggior forza che avrebbero avuto i due edifici se fossero stati di lunghezza equivalente, e avessero rappresentato, simmetrici e complementari, un robusto bastione scenografico posto all’ingresso in città. In realtà l’edificio lungo Viale Montello, costretto a terminare contro il grosso garage in costruzione, si è ridotto a un debole e goffo troncone. La colpa di questa soluzione “azzoppata” è tutta del Comune di Milano, il quale, se avesse avuto a cuore il decoro e la qualità della nostra città, avrebbe dovuto adoperarsi per trasferire altrove il garage e consentire alla Feltrinelli di completare l’edificio rimasto tronco.

La difesa dei due edifici Feltrinelli non significa ammirazione incondizionata per i loro progettisti. Cogliendo l’occasione offerta da Arcipelago si può aggiungere un commento, tutt’altro che favorevole, su di una loro recente opera, tanto decantata quanto discutibile,: lo stadio di Pechino, soprannominato, con inconsapevole sarcasmo, “il nido”; a causa sia della sua forma simile a un cestino, sia della sua struttura formata da poutrelle incrociate disordinatamente, come enormi pagliuzze intrecciate da un gigantesco volatile.

La critica a questo sconcertante edificio, prima di essere architettonica, è antropologica; riguarda l’uomo e la storia della sua evoluzione. L’uomo, per centinaia di migliaia di anni, si è impegnato in uno sforzo immane per uscire dallo stato di bestia ed elevarsi alla condizione di “homo sapiens”. In architettura il suo obiettivo è stato quello di abbandonare il rifugio naturale, creato dall’istinto; e costruire un’opera artificiale, voluta dall’intelletto. Rifiutata la tana, la caverna, in nido, l’uomo divenuto civile, crea un’architettura, cioè un’opera di valore artistico. Un’opera nella quale all’utilità pratica si aggiunge la finalità estetica; cioè la presenza di ordine, regola, rigore. Nello stadio di Pechino non si avverte ordine, ma caos; non si vede regola, ma confusione; non compare rigore, ma gratuita improvvisazione. Dopo secoli di lento e difficile progresso, e di faticoso perfezionamento nell’arte della costruzione, perché rinnegare le conquiste; tornare indietro, imitare gli uccelli? Il “nido” di Pechino rappresenta una retrocessione nel corso della storia; un ritorno alle barbarie; un regresso all’età che precede la comparsa dell’uomo.

Che la retromarcia tuttavia non sia inarrestabile lo fa sperare questo progetto milanese, suscettibile di critiche, sicuramente; ma non di stroncature.

Jacopo Gardella




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