8 giugno 2010

MA QUALE PRIVACY?


Ma che privacy e privacy. Non usiamo le parole a sproposito, please! Intanto è assolutamente necessario ricordare che il concetto stesso di privacy è stato elaborato alla fine del XIX secolo per difendere le élites dagli attacchi della stampa: il testo originario del dibattito negli Stati Uniti è l’articolo di Samuel Warren e Louis Brandeis, “The Right to Privacy”, sulla Harvard Law Review (4,193, 1890) in cui si costruiva appunto un diritto con questo nome1 in risposta alla diffusione della stampa di massa e soprattutto delle nuove tecnologie fotografiche che permettevano di “sbattere in prima pagina” non i mostri, ma i personaggi famosi e i membri delle élites.

La privacy è un concetto che si può applicare alle famiglie wasp che abitavano nei sobborghi di Boston nella ricca e beata America di prima della depressione, e che volevano continuare a vivere nelle loro belle case senza dover chiudere a chiave la porta e senza dover circondare i loro prati con fastidiose mura feudali. E che nessuno osasse ficcare il naso nelle loro questioni private, men che meno i giornalisti a caccia di pettegolezzi. Quindi fu soprattutto l’aspirazione a difendersi dai pettegolezzi che nel 1890 spinse Warren e Brandeis, interpretando un diffuso senso dello stile e delle prerogative della propria classe sociale, a voler introdurre nel sistema giuridico americano il concetto di privatezza o privacy, intraducibile nella lingua e nella cultura italiane, e dovremmo forse chiederci il perché.

Era una richiesta più che legittima per i tempi e implicitamente conteneva l’immagine di un’America serena e paciosa di quello che è stato chiamato il periodo d’oro della privacy, cui spesso si sono riferiti autori fictional e sociologi. Ma il problema riguardava appunto solo uno strato sociale specifico: come ricorda Edward Shils, gli immigrati italiani, ebrei o irlandesi che vivevano nelle varie Hell’s Kitchens delle grandi metropoli americane non ricadevano nell’ambito di applicazione di questo concetto. E nelle società europee la privatezza è sempre stata una prerogativa di classe più che un diritto generalizzato.

Non quindi è un concetto che si applichi agli oi polloi; serviva originariamente alla difesa dei pochi e ancora qui siamo a più di un secolo di distanza. Pertanto si tratta di un concetto e di un termine che confonde le acque, da accantonare per il momento, nel modo più drastico e radicale, se vogliamo raggiungere una qualche conclusione utile sul tema. E’ facile infatti constatare che le cose stanno oggi esattamente allo stesso punto delle origini: l’ideazione e definizione di un concetto di “privatezza” o “riservatezza” è sempre l’atto di un’élite che si vuol mettere al riparo da sguardi indiscreti, sostenendo di agire in nome di un diritto universale.

La verità è che questo diritto i poveri non l’hanno mai avuto: né nei luoghi di vita né nei luoghi di lavoro. Il cittadino medio ce l’ha sulla carta, ma se qualcuno decide di spiarlo non ha scampo. I potenti sono gli unici che possono aspirare a controllare la propria esposizione: fin che va bene e gli conviene ci fanno sapere anche la misura del loro pisello (o delle loro tette) e, con gli spaventosi closeups della televisione, fanno penetrare anche i peli delle loro narici nelle nostre abitazioni. Senza che nessuno si sogni di protestare per questa quotidiana violazione della nostra privacy. Quando poi vengono presi con il sorcio in bocca diventano ritrosi come verginelle.

E’ davvero il caso di dire, “ma va là”.

 

Guido Martinotti

 


 



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