17 maggio 2010

RENZO… COME FARSI TROTA


In Italia non c’è verso di credere a una rivoluzione che riconosca le virtù del merito, qualità ammiratissima, ma che è come la sciura Amelia: tutti la cercano e nessuno se la pija. E neppure la Lega riesce a sottrarsi al familismo amorale che, salendo dal meridione, suo habitat primario, pervade ogni anfratto della società settentrionale, lombarda e prealpina. “Lauràà e fadigàà, fadigàà e lauràà”, questo era ed è il refrain delle convention leghiste, affollate di magùt che si rompono la schiena dalle 5 della mattina fino alle 8 di sera, gente che ci crede alla fatica che produce il merito, visto che se non lavorano non mangiano.

Ma al cuor non si comanda, e così al momento buono l’Umberto non ha saputo, voluto o potuto, scansare le frecce velenose e dolciastre del “teniamo famiglia” di rito terronico. Alle ultime elezioni regionali lombarde, ha piazzato il buon figliolo, quel mediocre Renzo di manzoniana memoria, ben dentro alla pancia calda di mamma Regione. Un ottimo stipendio, una bella occasione per conoscere tante persone che contano, una piattaforma solida da cui spiccare il volo per prendere in mano domani l’impresa di famiglia, e poi via. Intanto qualche viaggetto ad Arcore con papà: guarda, taci e impara.

Certo, non si nasconde i difettucci del Renzo, una capra espulsa dalla scuola, pubblica e come tale ancora tristemente fedele al criterio del merito: tre volte, il Renzo, si è presentato agli esami di maturità (superati da oltre il 95% dei nostri non preparatissimi scolari) e per tre volte è stato inesorabilmente bocciato. Un Richetto padano dei giorni nostri, un gigante celtico con i calzoni al ginocchio, una macchietta bergamasca buona per lo Zecchino d’Oro di una volta, quello del Mago Zurlì.

Ma, a differenza di una normale famiglia di onesti lavoratori lombardi, che avrebbero rifilato prima sonori scapaccioni e poi un bel calcio nel deretano, spedendo il malcapitato al “lauràà” manuale più idoneo per la sua mente insigne, l’Umberto ha visto qui, proprio nella “tripleta” scolastica, le stigmate certe della progenie sua, e con queste il segno altrettanto sicuro dell’infame persecuzione professoral terronica. Nel vedere il Renzo appoggiare la sera tardi il crapone esausto sul tavolo della sua cameretta, senza peraltro che un solo pensiero avesse avuto la possibilità d’infilarvisi di soppiatto, il Bossi si è certo intenerito, ricordando i duri studi sui testi insormontabili della Scuola Elettra di Torino, i suoi fallimenti scolastici e l’avversione che ha maturato verso un mondo che non lo riconosceva per i suoi meriti intrinseci, in quanto tali appunto non dimostrabili.

Qui il Bossi ha subìto l’ingiustizia primaria, qui gli è stata inferta l’onta originaria da cui è partito verso il mondo con il suo livoroso “ve la farò vedere io chi ce l’ha più duro”. Ah, Renzo, come non rivedere me in te, come non riconoscere i fausti presagi che hanno fatto di un povero casciabal di provincia il più temuto capo dei galli celtici cisalpini dopo Brenno?

Certo, pensa il Bossi, Renzo è alle prime armi e quindi non lo posso da subito nominare come il mio successore, il mio delfino, che tra l’altro è un pesce di mare, elemento naturale estraneo, per non dire ostile, alla terragna Padania. E poi cosa penserebbero i Calderoli, i Maroni, i Cota, gli Zaia? Sono degli imbecilli, ma mi servono ancora per qualche tempo. Così, al malevolo cronista che per l’ennesima volta lo stuzzica con le sue irriverenti domande, il Bossi resta sul terreno ittico, ma lo volge sapientemente in salsa alpina: il delfino diviene trota, una tenera trotella di torrente che deve crescere ancora, accompagnata dalle sapienti e amorevoli cure dei suoi genitori, evidentemente trote a loro volta.

Il popolo leghista, che vive infantilmente di un culto carismatico superiore anche a quello del berlusca, accetta complice la debolezza paterna, sorride condiscendente come ogni bravo papà farebbe guardando al proprio figliolo un po’ sfortunato, e così accettando, così sorridendo, così sprofondando in questa melassa dolciastra, realizza finalmente il sogno dei Padri della Patria: l’Italia è unita, teniamo tutti famiglia.

Non c’è Sicilia, non c’è Lombardia, non c’è Lazio, non c’è Piemonte o Campania, c’è solo la famiglia, c’è solo una nazione unita indefettibilmente in questo abbraccio di amorosi sensi, che unisce e discrimina non per virtù ma per sangue, non per merito ma per amore. Non vi sono più né greci, né longobardi, né normanni, né slavi, né sardi, né friulani, vince il sostrato storico nazionale, l’universalismo della famiglia, tessuto strettissimo e non derogabile della nostra italianità.

La Padania non c’è più, ma ora lo possiamo anche confessare: non c’era mai stata, era solo un sogno che non ha fatto in tempo a diventare incubo. Viva la cara, vecchia, mediocre, dolcissima Italia nostra, dei core di mamma, degli scarafoni, dei braui fioeu.

Così, dopo, qualche tempo dopo, assaggiando la frittata ormai irreparabile di un’Italia riunita per sempre attorno al focolare domestico nazionale, sfuggirà al povero Umberto incanutito l’ultima invettiva: “Ah, Renzo, gran figlio di una trota, guarda cosa hai combinato, me l’avevano detto in tanti che era meglio il Riccardo, quel figlio dell’altra trota”.



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