10 maggio 2010

IL SINDACO, RADETZKY E L’ALTRO SALONE


Cosa hanno a che fare tra loro Radetzky e l’Altro Salone, e che “ci azzeccano” poi tutti e due con il Sindaco di Milano? C’entrano eccome, sia pure per metafora e segno dei tempi, entrambi sintomi della crisi del politico, o meglio ancora della sua relazione con la società. Il fantasma di Radetzky è stato imprudentemente evocato da Marco Vitale, che si rassegna a parlar di politica e società solo perché non c’è più uno come il vecchio generale austriaco sulla piazza di Milano (lo dice, non credendoci però).

L’Altro Salone è la più impressionante dimostrazione dell’anima buona di Milano, della sua inesauribile vitalità, di un dinamismo imprenditoriale genuinamente democratico, espresso da un sociale che non attende la politica, ma la precede e la spiazza senza rimedio. Questo dell’evocare il vetusto Radetzky (perfino il correttore word non lo accetta !) è chiara metafora della difficoltà ad accettare la sfida della complessità del nostro mondo con altro che non sia una disinvolta semplificazione all’insegna del buon governo tecnocratico: amministrazione efficiente e veloce, marciapiedi puliti, onestà (ma sarà stato davvero così?) e poi ognuno a farsi, un pò bovinamente via, gli affari propri.

Vi è qualcosa, qui, di meno distante dal concetto di polis? Dallo status di cittadino che ritrova il senso più appropriato della sua condizione di civis proprio ed esattamente nella partecipazione come protagonista alla vita comune della propria città? E d’altra parte, è ancora possibile a qualcuno credere, e far credere, che la tecnocrazia non sia comunque concreto mandato politico a gestire la cosa pubblica in nome di determinati interessi, inevitabilmente parziali? Certo, si può anche rimpiangere la buona amministrazione lombardo veneta, ma la bontà del processo non è garanzia in sé della bontà dei fini e d’altra parte non è che la buona amministrazione nasce dalla volontà sovrumana di un singolo (ah, quando c’era lui ….).

La buona amministrazione e i buoni processi di gestione nascono e si consolidano ben dentro una prevalenza culturale affermata nell’evoluzione storica di una comunità che ha saputo nel tempo far emergere soggetti sociali e valori culturali coerenti con il lavoro, “la fatica del lavoro”, il merito, l’imprenditorialità, l’innovazione, e la giustizia regolata e amministrata secondo questi valori. Senza questi presupposti, senza l’affermazione primigenia di un genius loci siffatto, semplicemente non si dà buona amministrazione, così come la concepiamo modernamente quale azione “tecnica” informata a principi d’imparzialità, rispetto delle regole, presa in carico, senso del servizio. Al di fuori di questo, vi è solo una pseudo pubblica amministrazione, informata ai valori opposti, della clientela, della “famiglianza”, dello scambio di favori, dell’opacità, del senso privato e di appropriazione per conto terzi della risorsa pubblica.

Per fortuna poi Marco Vitale, che è persona a cui tutti guardano con grande rispetto e speranza per quello che dà e potrà dare a Milano, poi passa a parlare fuor di metafora e coglie precisamente nel segno quando, riportando la proposta di Aleotti, nega la cittadinanza (absit injuria verbis) alla scorciatoia del candidato sindaco che ci toglie le castagne dal fuoco e ributta la palla nella parte del campo dove deve esattamente stare: quali sono i connotati dei bisogni e dei soggetti che possono oggi, prima esistendo socialmente, e poi agendo politicamente, sostenere la formazione di una compagine di centro sinistra vincente? Qui, uno sguardo sulla politica di campo democratico vede macerie e un affannarsi di personaggi in cerca d’autore: stravince una politique politicienne, un agitare valori astratti, genericamente buoni, ma senza reale costrutto, un richiedere compulsivamente una delega a rappresentare un sociale di cui ormai non si capisce più nulla.

Il fatto è che a vent’anni da Tangentopoli, la tragedia della famiglia milanese di sinistra non solo si è compiuta, ma è degenerata in farsa. Il faro della vita cittadina, la borghesia democratica milanese, un po’ è scomparsa per consunzione dei suoi componenti, un po’ha mantenuto il suo non volemus verso gli eredi di un PCI che non dimentichiamolo, qui a Milano, non è mai stato protagonista della vita cittadina, ridotto sempre a innocua minoranza culturale replicante di ben altri insediamenti. Milano è sempre stata socialista, mentre Bologna e Firenze prima, e poi Roma, Torino, Napoli, Genova, Bari fino Venezia, sono diventate di sinistra a trazione comunista, e poi, cambiati nomi e cose, comunque nel solco di quella tradizione e di quel ceto dirigente. Vi è qui uno specifico apparentemente irriducibile che connota il profilo della nostra città, e che esclude questa tradizione di derivazione comunista, e il corrispondente ceto politico, dalla candidatura alla sua guida. I DS hanno lanciato un’avventurosa OPA sul PD e l’hanno pure portata a casa, solo che si accorgono che non sanno che farsene, che la città guarda ad altro, che persiste un sentire diverso di cui le stesse ultime elezioni regionali, con il prevalere (benedette preferenze) dei candidati lontani dall’appartenenza ex ds, hanno certificato chiaramente.

E qui, finalmente casca il discorso sull’Altro Salone, un’anarchica festa mobile che si è letteralmente mangiata in pochi anni la manifestazione ufficiale, quella che prende i soldi della politica, che dà poltrone e prebende. Su cosa si fonda l’Altro Salone e cosa ci dice? Si fonda sui migliori valori portanti di Milano, aggiornati nel vivo della società della conoscenza: imprenditorialità, socialità, merito, partecipazione, orizzontalità, rete, gioventù, dinamismo, innovazione, talenti messi in gioco in una competizione apparentemente senza regole codificate, ma in realtà praticate, comprese e condivise: chi ha qualcosa da dire lo dice, non ci sono sovrastrutture mortificanti dell’iniziativa e del talento, ma c’è tanta, tanta, cooperazione sociale.

Soggettività e Comunità.

Nei 7 giorni dell’Altro Salone, Milano torna a essere Capitale dell’Innovazione, del Gusto e dell’Immateriale, ben più e oltre la Settimana della Moda, elitaria, assolutamente agèè e ormai declassata come i suoi tristi epigoni (ve la immaginate una Wintour che impone al suo capriccio le date dell’Altro Salone?), attraendo da tutto il mondo il fiore della gioventù creativa e contaminandola in un happening assolutamente universalistico e unico sullo scenario mondiale.

Altro che Radetztky, altro che governo tecnocratico alla Lucio Stanca! Ma che c’entra tutto questo con la Politica, con il PD, con il Sindaco di Milano? Chi ponesse queste domande confesserebbe la propria miopia di politico, di un politico che non è che rinuncia al confronto con la città, è che proprio non la capisce più. Politica e sociale parlano ormai lingue distinte, e il PD, che pure avrebbe buone intenzioni, non sa leggere le innovazioni e gli spostamenti dei confini tra politica e sociale. Come non comprendere che in una città così, centrata sempre più sui servizi dell’immateriale, sull’opportunità che questi servizi offrono alla fioritura dei talenti e dell’imprenditorialità democraticamente diffusa, in una città che vede nella produzione e la diffusione della conoscenza la sua specializzazione produttiva più promettente, vi è sempre meno spazio per un politico irretito nelle forme stanche della rappresentanza di supposte omogenee entità collettive che lo legittimano per delega?

La nostra tradizione politica, specie quella di sinistra, è bene ricordarlo, si fonda sulla dialettica, incostante peraltro, tra movimenti collettivi e delega. I movimenti, anche quando non accettano neppure il concetto di delega, tuttavia fissano emotivamente il clima della comunità in cui si muovono, e con questo anche gli stessi confini della politica. L’assenza dei movimenti dalla scena milanese degli ultimi decenni (Tangentopoli fu un movimento sui generis), ha consentito lo straripare della politica, che occupa a macchia d’olio spazi sempre crescenti, secondo l’indiscussa legge universale per la quale, dove c’è un vuoto, qualcuno lo riempie. Questo imperialismo del politico appare però sempre più autoreferenziale, in un gioco tutto interno alla sua stessa sfera, ed è sempre meno legittimato da un cittadino che mentre fatica a vedere valore aggiunto restituitogli, non è miope di fronte alle mille tagliole poste per l’esercizio dei suoi diritti e per l’espressione della sua soggettività.

E’ crisi, crisi dura del politico e della sua relazione con il sociale. Il deteriorarsi della dialettica tra politica e società non durerà però indefinitamente senza produrre nuovi sbocchi, la delegittimazione del politico già corrode l’istituto elettorale e può aprire le porte alle avventure dell’impolitico, del cesarismo, e del nuovo populismo autoritario. Ma se non vi sono più movimenti, dove trovare le risorse per un’iniziativa che ridia slancio ai valori della sinistra? Dove trovare una visione che riconiughi politica e società, insomma, come dice bene Piervito Antoniazzi, un frame, un racconto, un nuovo paradigma esplicativo dell’oggi e del domani che riconnetta giustizia e libertà, comunità e soggetto, pubblico e privato, se si vuole un sogno, o meglio una nuova utopia concreta?

Qui la sfida, come ho cercato di dire, trova uno dei suoi campi elettivi d’azione nella capacità di leggere la connessione tra le nuove domande che sorgono dalle nuove identità sociali e le nuove forme del politico, ridefinendo contestualmente il suo confine con il sociale. Guardiamo a cosa è oggi il capitale umano di Milano, alla sua enorme potenzialità, guardiamo a cosa siamo noi individualmente e nelle nostre aggregazioni, a cosa facciamo, alle competenze e alle capacità, e chiediamoci se questo dirompente valore può trovare spazio, o anche solo riconoscersi nel rito di un voto per delega ogni 5 anni o in Consigli di Zona al tempo stesso mostruosamente disegnati sul territorio e privi di risorse per operare come centri di gravità di energie e risorse di governo locale.

E d’altra parte, com’è possibile pensare a una cittadinanza tutta giocata sull’atomismo economico e sui flussi, e non riarticolata sui luoghi (locus standi dove l’identità si consolida e riposa) e sulle appartenenze? Emerge qui, a mio parere, una radicale assenza d’istituti di rappresentazione e di decisione del sociale, di questo nostro moderno sociale a forte soggettività, caleidoscopico e imprenditoriale, attraverso i quali la carica espressa da un Altro Salone può trovare un tessuto connettivo, un abito e un nuovo ambito di regole di autodeterminazione, riappropriandosi degli spazi originari impropriamente occupati dal politico e ridefinendone altri come spazi di un nuovo politico.

La democrazia rappresentativa è una bella invenzione, ma è una creatura della storia e come tutte le forme storiche non riassume in sé tutte le soluzioni al problema della relazione tra società e politica.

Il cittadino di oggi dispone di strumenti culturali, informativi, relazionali, enormemente più potenti delle epoche precedenti e li vive in un contesto fortemente differenziato, connotato da altrettanta forte soggettività: la sua domanda di cittadinanza si situa ben oltre gli steccati posti dalla politica d’oggi (riti elettivi e fantasmi partecipativi) e cerca nuovi spazi in cui poter contare. Li cerca, forse non sa cosa bene cerca, ma certamente sa cosa non cerca.

Non è detto che li trovi, ma questo a me pare uno degli spazi privilegiati per l’innovazione della Politica e questo mi sembra sia anche lo spazio di una sinistra, di un PD se si vuole, che intenda finalmente lasciarsi alle spalle le rovine del secolo breve, reinnnamorarsi della società contemporanea, essendone finalmente riamato. E allora, d’accordo con Vitale e Aleotti, la questione del Sindaco è la questione di una radicale innovazione della cultura della sinistra milanese: non c’è un prima e un dopo, c’è solo un mentre. Un pensare e un fare contemporanei non solo nel processo, ma soprattutto nel senso dell’urgenza della ripresa della contemporaneità della cultura democratica. Un Buon Amen per Radetzky, e Que Viva l’Altro Salone.UALCH

 

Giuseppe Ucciero



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