10 maggio 2010

LEGHISMO E FASCISMO


Quando si parla e si pensa alla Lega Nord non si dovrebbe perdere di vista qual è la sua ragione sociale originaria, alla quale è rimasta sempre fedele: è un partito secessionista e razzista, che si sviluppa nelle osterie di provincia e nelle “curve” degli stadi pedemontani. E’ l’alito cattivo del Nord razzista, quello di chi pensa che i “terùn” sono scansafatiche, ladri e protetti dallo Stato, che è controllato da loro; è quella di “Roma ladrona”, evoluzione antistatalista che permette di inglobare nella protesta lumbard anche gli immigrati elettori e residenti nonostante abbiano ancora un accento del Sud.

La Lega nasce nelle valli e nelle zone pedemontane, dove i meridionali sono quasi sempre impiegati pubblici, mentre imprenditori, artigiani e lavoratori sono in stragrande maggioranza lombardi, a differenza della realtà urbana della grande Milano, dove l’immigrazione determinata dalla grande industria ha scritto una storia comunitaria radicalmente diversa. Le parole d’ordine rozze e volgari che poggiano su un’analisi sociale ed economica quantomeno altrettanto di lana grossa attecchiscono nelle province dove le comunità sono rimaste chiuse, tutto campanile e lavoro, cuore della Lombardia “bianca” che ha delegato la propria rappresentanza alla Dc che con i voti dei curati di campagna sosteneva il riformismo dei professori della Cattolica .

Bossi s’incunea prima nei gruppi sociali e nelle sacche di emarginazione giovanile della provincia lombarda che Chiesa e partiti non riescono a coprire per intero, reclutando quella che costituirà la “base” dura e pura che, nei momenti di difficoltà, verrà utilizzata in maniera spregiudicata e quasi spietata, lanciata indifferentemente contro avversari politici – i partiti al potere, Dc e Psi in primis– come contro i “traditori” – i dissidenti anche solo potenziali, come il cognato di Bossi cofondatore della Lega Lombarda, allontanato a legnate non metaforiche. Questi leghisti della prima ora svolgono per il movimento di Bossi la stessa funzione fondativa e identitaria che ebbero gli squadristi per il fascismo, movimento con il quale ha molte analogie, a partire dalla mancanza di qualsiasi ideologia o progetto politico originario: proprio questa mancanza di vincoli “culturali” permette a Bossi oggi, come fu per Mussolini nel Ventennio, di assumere di volta in volta posizioni qualificabili come di destra o di sinistra senza per questo perdere in originalità e indipendenza. Mussolini il mangiapreti locupleta il Vaticano con il Concordato e diventa l’uomo della Provvidenza, Bossi il celtico si trasforma in Crociato quando opportunità politica richiede, entrambi senza pagare alcun dazio all’altare della coerenza politica e culturale.

L’equivalente del “boia chi molla” che chiamava all’azione quanti in grado di opporsi con le armi alla “sovversione rossa” è il “padroni a casa nostra ” che è stata e rimane la stella polare della politica leghista. Sotto quest’ombrello la Lega si allarga al ceto professionale e artigianale che con la crisi degli anni ottanta si sente trascurato dalla Dc, che si ritiene si sia sbilanciata verso le clientele del Sud per arginare l’avanzata “rossa” delle grandi città: il tacito patto che prevedeva una tollerata evasione fiscale per questi ceti in cambio di una stabilità elettorale straordinaria (il voto in Lombardia ha lo stesso andamento per tutto il Novecento, perfino nelle consultazioni dell’inizio del Ventennio fascista) salta con la crisi di fine anni ottanta e con l’esplodere della spesa pubblica .

La Dc e i partiti della prima Repubblica diventano estranei, non più in grado di tutelare gli interessi del “Nord” e “Roma ladrona” prima, Tangentopoli poi diventano la giustificazione “morale” per la rivolta antistatalista ( e l’evasione fiscale sistematica ) che la Lega di Bossi è pronta ad incarnare. Questa seconda ondata leghista porta a quello che verrà definito il “radicamento” territoriale della Lega, vale a dire centinaia di amministratori locali, sindaci e assessori che “conquistano” municipi su municipi da ormai più di dieci anni, almeno tre tornate elettorali amministrative, tanto da far pensare all’esistenza di un “modello”. Nella realtà gli amministratori leghisti sono tutto tranne che un nuovo “modello”: se si eccettuano alcune figure folcloristiche e di nessun impatto duraturo, gli amministratori della Lega hanno le stesse caratteristiche della vecchia classe dirigente democristiana locale, costruita con la presenza, l’ascolto e la vicinanza con i cittadini, non con le alzate d’ingegno particolari. La Lega però, a differenza della Dc, resta un partito saldamente nelle mani del leader governato da pochi fedelissimi in perenne lite fra loro (altra analogia con il Pnf ) che controlla tutto e impedisce la degenerazione della corruzione personale e locale, mantenendo un’immagine di estraneità al “sistema” a dispetto di casi come la “Banca del Nord” o dei soldi della Montedison in piena Tangentopoli “restituiti” con il famoso “fiasco” del “pirla” Patelli.

La stessa ragione sociale permette la virata dai “terroni” ai “negri”, intestandosi la battaglia per la sicurezza che porta la Lega a occupare lo spazio che in Francia è di Le Pen e in Italia viene lasciato libero dall’evoluzione della destra dell’Msi che con Fini percorre la via della “istituzionalizzazione”. Ancora una volta, la spregiudicatezza della Lega permette la conquista di nuovi consensi, soprattutto nei ceti popolari, tra gli anziani e tra le donne, quelli più sottoposti al disagio della convivenza con i “diversi” e molto presto alla concorrenza sui servizi sociali più che sul lavoro dei nuovi arrivati. Mentre la sinistra dimostra di non capirci nulla, soprattutto perché decapitata con Tangentopoli del suo gruppo dirigente riformista al Nord, la Lega continua a declinare il suo “mantra”, “padroni a casa nostra” sul terreno del welfare, appropriandosi in qualche modo delle conquiste socialdemocratiche e facendone una propria bandiera: le pensioni, diventate “quelle dei lavoratori del Nord”, non si toccano, così come la casa, l’assistenza sanitaria e tutto il welfare che è in crisi perché la sinistra “lo vuole dare anche agli extracomunitari”. E’ per questo che mancano i soldi, che sono “nostri” e basterebbero se tutto questo fosse solo per “quelli del Nord”.

Come già successo con il fascismo, il leghismo appare come rivoluzionario pur essendo il gendarme della conservazione e dell’arretratezza culturale e politica e viene arruolato dalla destra “borghese” nell’illusione di essere utilizzato e controllato. Certo anche la Lega ha messo in campo alcune individualità politiche di buon rilievo, in campo ministeriale e parlamentare, finendo per apparire come meglio attrezzata rispetto all’armata brancaleone radunatasi intorno al predellino di piazza San Babila, riuscendo a lucrare più di un consenso alle ultime elezioni regionali per avere avuto un’immagine di maggior affidabilità e perfino di serietà nell’ambito del centrodestra ed è in grado oggi di candidare a cariche prestigiose gente dignitosa come Luca Zaia piuttosto che l’impalpabile Zanello, il primo presidente della Regione Lombardia leghista che c’è già stato e di cui nessuno si ricorda.

Ma l’anima della Lega, quella che fa il suo successo elettorale e che le da’ il ruolo politico determinante per la maggioranza di centrodestra è quella originaria: i voti leghisti non sono portati dal ministro sassofonista Maroni, sono raccattati dall’ultrà Salvini che dice di voler ” stanare i clandestini casa per casa”. E questo lo sa bene uno degli architetti dell’alleanza politica di centrodestra come Giulio Tremonti che in quello che è stato probabilmente il comizio decisivo per la vittoria in Piemonte si è rivolto alla folla gridando; ” Noi non leggiamo libri, mangiamo agnolotti e amiamo la nostra terra. Gli “altri” stanno nei salotti, mangiano kus kus e vanno all’estero”. La grevità ha pagato e la Lega ha conquistato la presidenza, vincendo in tutte le province tranne che a Torino città.

Il motivo per il quale la Lega non sfonda elettoralmente a Torino come Milano, dove continua ad avere percentuali inferiori del 50% perfino rispetto ai comuni limitrofi, non è organizzativo (la Lega prende oltre il 30 % in decine di Comuni lombardi dove non si è mai visto un tizio in marsina verde nemmeno in fotografia), ma è socio culturale: in città un movimento che “vien giù con la piena” non convince appieno la borghesia cittadina che può pensare di “usarla”, ma mantiene il suo consenso alla destra oggi incarnata da Berlusconi. E del resto a Milano nemmeno quando si votò con la legge Acerbo alle ultime pseudoelezioni permesse dal regime fascista la destra ottenne la maggioranza, unica città nella quale il “listone” si fermò addirittura al di sotto della percentuale pur bassa necessaria per ottenere il premio di maggioranza.

Il consenso urbano della Lega, che si ferma al 10%, è costituito da operai sindacalizzati e dalle loro famiglie, gli stessi che hanno ancora in tasca la tessera Cgil e votavano per il Pci, perché la Lega riprende le posizioni e le politiche “contro”, senza affrontare l’onere riformista della proposta e quindi senza pagarne il costo: l’abilità di Bossi e dei suoi seguaci è la stessa del Pci di “lotta e di governo”, che gli permette di mettere assieme i consensi della borghesia parafascista ostile e infastidita dall’Europa e dei lavoratori inseriti nel sistema di garanzie ma spaventati dalla competizione che gli immigrati portano fin sulla soglia di casa.

In Francia e Germania l’equivalente della Lega, il Front National di Le Pen e i movimenti xenofobi e neonazisti, sono stati isolati ed esclusi dalla dialettica politica tra conservatori democratici e progressisti socialisti. In Italia la destra post Dc ha utilizzato la Lega per avere il sopravvento, generando una maggioranza politica che non ha omologhi nel resto dell’Europa occidentale. Purtroppo nemmeno la sinistra italiana, o quel che resta di essa, trova similitudine in Europa, anzi ha addirittura fatto un vanto di questa sua diversità somma di negazioni d’identità: sarà per questo che si prendono in seria considerazione scimmiottature protoleghiste come quelle di Penati a Milano o quelle blaterate, più che praticate, da Chiamparino a Torino, convinti di poter riconquistare le posizioni perdute “riprendendosi” le parole d’ordine scippate dalla Lega.

Se la sinistra pensa di tornare in gioco al Nord trasformando Umberto Bossi in un padre della Patria solo perché a seguito della malattia dice a bassa voce e con minore impeto gli stessi “concetti” dei tempi del celodurismo, ancorché lievemente rassettati dal punto di vista linguistico e sperando in una rottura con l'”odiato” Berlusconi, farà la stessa fine dei partiti antifascisti e degli appelli ai “fratelli in camicia nera”: essere fuori dal gioco fino a che un evento straordinario e tragico non rimescola la situazione .

Chi si avvicina alla Lega si ricordi di sentirne l’alito profondo, prima di farsi stordire dai profumi e dagli afrori del successo e del potere. E’ impossibile da mascherare e ne rivela la vera natura.

 

Franco D’Alfonso



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