8 febbraio 2022

L’ASSALTO ALLA DILIGENZA

PNRR e impiego delle risorse


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In attesa di aprire un approfondimento sugli interventi previsti dal PNRR a Milano e nell’area metropolitana di cui si è discusso il 13 dicembre scorso al Piccolo Teatro con i Ministri della Transizione Ecologica, quello  per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, con capo del Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica economica della Presidenza del Consiglio,  la Vice Presidente e Assessore al Welfare della Regione Lombardia, e il sindaco di Milano proviamo ad esaminare alcuni aspetti generali emersi dal dibattito a cui diamo questo contributo.

Le risorse del Pnrr stanno affluendo nelle casse dello Stato italiano, e se nessuno ha fatto previsioni su quanto incideranno nell’allargamento del debito pubblico, già assistiamo a un vero e proprio assalto alla diligenza. Comuni, regioni, ministeri, imprese sono in prima linea in questa lotta contro il tempo per accaparrarsi i fondi in arrivo da Bruxelles.

Altisonanti sono gli obiettivi (poco più che titoli): coesione con il Mezzogiorno, riduzione delle disparità sociali, digitalizzazione, transizione ecologica, cura del ferro, rigenerazioni urbane… C’era da aspettarselo, ma quando l’Istat pochi giorni fa ha reso noto che il Pnrr è inutile per le imprese, secondo le quali stiamo collezionando debito senza aiutare l’economia reale, nessuno ha fatto un plissé. Partiti, associazioni, sindacati: nessuno ha voglia di raddrizzare una spesa che fa gola ai lobbysti e ai grandi costruttori.

Secondo l’indagine dell’Istituto di statistica su quasi un milione di aziende dell’industria, del commercio e dei servizi che corrispondono al 22,2% delle imprese italiane, ma producono il 93,2% del valore aggiunto nazionale e impiegano 13,1 milioni di lavoratori, circa metà di esse hanno fatto sapere che dal fiume di soldi del Pnrr si attendono molto poco, e che quelle risorse non fanno parte del loro core business.

Il giudizio riguarda sorprendentemente anche le misure relative alla transizione ecologica e alle infrastrutture e alla mobilità sostenibile, che avrebbero un orizzonte di sviluppo di lungo periodo mentre – affermano le imprese – l’ambiente e l’occupazione sono un’urgenza immediata. 

Sul Pnrr, peraltro, il governo non ha coinvolto quasi per nulla il Parlamento. Perciò i parlamentari giocano una partita di rimessa a livello territoriale, mettendo quando possono la loro bandierina (personale, neanche più del partito cui appartengono) su opere locali che sono già state scelte o tirate fuori dai cassetti dai gestori delle reti stradali (ANAS, province o concessionarie autostradali), ferroviarie (RFI, FNM), aeroportuali (Sea, Adr, Save), o dei punti di rete dei Porti.

È proprio nel settore delle infrastrutture che maggiormente si nota l’adozione di molti progetti senza analisi sul traffico, sui benefici ambientali e sui moltiplicatori occupazionali che ne giustifichino la realizzazione. Le grandi opere in particolare (anche ferroviarie) non si sa che fine faranno e se saranno completate, visto che i 24,77 miliardi di euro del Pnrr – che scade nel 2026 – non basteranno e alla sua scadenza si dovranno trovare ancora oltre 40 miliardi per completarle.

Una di queste da sola – l’Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria – costerà 25 miliardi, e se mai verrà completata trasporterebbe non più di 6-7 mila passeggeri al giorno, dopo aver bucato 166 km di montagna su 455 km di tracciato complessivo.

Al Pnrr viene in soccorso il DL infrastrutture recentemente approvato, che, visti i prevedibili ritardi costruttivi che faranno interrompere i flussi finanziari europei, prevede di sostituirli con risorse nazionali che avranno costi nettamente superiori. Se la legge Obiettivo di berlusconiana memoria si era arenata per la carenza di risorse, questa volta sarà peggio, perché ci sono i soldi per cominciare tutte le opere, ma per finirle chissà.

Inoltre, sempre grazie al DL infrastrutture (non discusso neppure per un attimo dai due rami del Parlamento) l’affidamento della progettazione ed esecuzione delle opere previste potrà avvenire anche con il solo progetto di fattibilità, senza più la necessità del progetto esecutivo. In più, il dibattito pubblico sulle opere potrà essere consentito dalla stazione appaltante, e non da comuni o regioni.

L’analisi costi-benefici, poi, verrà aggirata surrettiziamente. La fattibilità tecnica ed economica dovrebbe individuare la soluzione con il miglior rapporto tra costi e benefici per la collettività. In base alle nuove linee guida, però, l’analisi dovrà essere eseguita sulla base di una metodologia “spendacciona” a maglie larghe, che consente a tutte le opere di avere un risultato positivo assumendo come parametro base il tempo e non il costo generalizzato.

Il progetto di fattibilità tecnico-economica potrà escludere l’esecuzione dell’opera in lotti funzionali. Restano però quelli costruttivi, che hanno caratterizzato le molte incompiute nazionali.

Un volta che la conferenza di servizi – a cura dalla stazione appaltante – approverà il progetto, esso avrà effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti. La variante urbanistica conseguente alla determinazione conclusiva della conferenza, comporta l’assoggettamento delle aree all’esproprio. La conferenza di servizi si potrà svolgere senza la conformità urbanistico-edilizia. Diventa così carta straccia la valutazione d’impatto ambientale (VIA).

Per l’accelerazione di queste procedure viene prevista la procedura di VIA speciale, introdotta dal DL ‘semplificazioni’ 77/2021. Saranno ridotte al minimo le precedenti disposizioni, con la creazione di una disciplina specifica per la valutazione ambientale (semplificata), in sede statale, dei progetti previsti per l’attuazione del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC). 

Dario Balotta

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