3 maggio 2010

LA CORTE DEI CONTI BOCCIA IL 3+2 . È VERO?


Un recente documento della Corte dei Conti del 14 aprile 2010 dal curioso titolo medico “Referto sul sistema universitario” ha dato la stura a numerosi commenti sulla stampa nazionale. Gran parte dei giornalisti hanno tratto conferma dalla lettura – forse un poco affrettata – del documento, di ciò che “molti dicono”, ossia che l’introduzione del modello 3+2 introdotta dal ministro Berlinguer nel 1999 è sostanzialmente fallita. “Lauree brevi e costose” titola Repubblica; “Insufficienti i risultati delle lauree brevi” scrive Corsera; “La laurea breve non aumenta il numero dei dottori” titola il Sole 24 ore. Su Sette-Corsera A.Panebianco trova nel documento conferma di quanto lui e uno sparuto numero di professori perspicaci avevano già previsto nel lontano 1999, ossia che il mercato del lavoro italiano e le professioni non sarebbero mai cambiati e che quindi era inutile, se non dannoso, riformare l’università. Meglio non cambiare nulla per evitare che cambi qualcosa.

La Corte dei Conti ha in realtà prodotto un ottimo e ponderoso documento, la cui lettura è suggerita a chi s’interessa ai problemi dell’Università. Si compone di 142 pagine ben scritte, che seguono una chiara architettura espositiva, descrivendo in modo molto preciso, documentato ed equilibrato il funzionamento dell’Università in tutti i suoi aspetti – sistema di governo, gestione economica e finanziaria, personale, domanda e offerta formativa, ricerca. Dalle pagine non emerge affatto l’interpretazione gridata dalla stampa, ma piuttosto un più intelligente quadro fatto di ombre e luci, e, soprattutto, l’idea che ciò che veramente è mancato è il governo della riforma. Il vero fallimento sta infatti nella sua implementazione, e in particolare nelle politiche attivate dalle università e dai ministri competenti che si sono succeduti negli anni, sotto ogni tipo di governo. Ne emerge anche, in modo convincente, che alcune delle linee guida della riforma di cui si discute in questi giorni sono assai sensate.

Per capire il senso della riforma del 1999 è necessario tenere presente che in Italia lo schema allora esistente – quadriennio o quinquennio – diversamente da gran parte dei paesi avanzati, non distingueva tra formazione di primo livello – undergraduate – e di livello superiore – graduate -, che consente di allargare la base formativa universitaria e selezionare la formazione a seconda del livello; che nell’ultimo decennio gli enormi insuccessi della formazione primaria e secondaria del sistema scolastico, peraltro comuni a molti altri paesi, hanno scaricato sull’università matricole qualitativamente molto diverse da quelle che alimentavano i quadrienni; che d’altra parte, diversamente da gran parte degli altri paesi, non esisteva e non esiste neppure ora alcun filtro che in qualche modo selezioni l’accesso all’Università secondo qualche criterio di merito o di vocazione; che il modello di governo dell’Università era ed è confuso e sbilanciato a favore di un corpo docente sempre più vecchio.

La riforma del 1999, ma soprattutto la sua interpretazione conservatrice avviata dal ministro Zecchino e non contraddetta dal ministro Moratti e Mussi, ha preteso di affrontare le prime due situazioni, senza intervenire sulle altre due e, soprattutto, senza dare alle università orientamenti interpretativi degli obiettivi. Ad esempio non ha chiarito se i trienni avrebbero dovuto avere una finalità professionalizzante o di formazione culturale di base. Sono due ipotesi formative sensate, ma anche molto diverse. Ogni università ha fatto a modo suo, e la riforma, non modificando la loro governance, ha lasciato in mano alle corporazioni dei docenti la definizione della così detta offerta formativa, che si è tradotta nella giustamente criticata moltiplicazione dei corsi, con scarsa considerazione dell’esigenza della domanda formativa. Non vi sono pure state neppure precise indicazioni ministeriali sui vincoli finanziari, e anzi il Ministero ha attivato un sistema di promozioni interne, ben evidenziato dalla Corte dei conti, che ha fatto crescere in modo esorbitante il numero dei professori ordinari, e i conseguenti costi. Inoltre è mancata qualsiasi indicazione sulla necessità di avere un numero minimo d’iscritti per corso di laurea, oppure sull’apertura di nuove e mediocri sedi sparse nella regione. Nessuna università, anche quando fosse consapevole dei propri limiti, ha avuto il coraggio di fare opzioni precise, ad esempio concordando con altre una divisione del lavoro tra trienni e bienni, tra facoltà e facoltà. Gli incentivi sollecitavano a massimizzare gli iscritti, a farli procedere nel triennio e nel biennio attenuando la selezione. Si aggiunga che ogni ministro ha preteso di modificare qualcosa nell’interpretazione dell’organizzazione didattica, facendo sì che l’impegno dei docenti sia stato in gran parte assorbito da impegni amministrativi per soddisfare le nuove richieste, anziché da uno sforzo di revisione della didattica.

Una gran confusione dunque, molto ben descritta nel documento. Da un punto di vista economico l’effetto è stato quello della crescita senza controllo dei costi – il ministero non ha ad esempio verificato in tempo la tendenza davvero fallimentare di alcune amministrazioni come quelle dell’Università di Siena, Firenze, Napoli, etc.; della dequalificazione dei corsi, in parte considerevole imposta da una nuova generazione di diplomati decisamente impreparati a una scelta universitaria consapevole e a un impegno avanzato di studio. Proprio perché i nuovi studenti venivano da famiglie i cui genitori non avevano esperienza universitaria, sarebbe stato necessario informarli e selezionarli maggiormente, e premiare i migliori. Ma questo era troppo difficile e politicamente pericoloso per ogni governo centrale. Non stupiscono allora alcuni dati della Corte dei conti: le matricole s’iscrivono in sedi vicine a casa – minimizzazione dei costi -; le matricole abbandonano l’Università in alta percentuale dopo il primo e il secondo anno – ed è ovvio perché non erano né informati, né selezionati; i laureati – anche quelli delle facoltà letterarie – complessivamente trovano lavoro, diversamente da quanto sottolineano i giornali, e questo è quasi sorprendente, dal momento che il sistema produttivo italiano è pur sempre refrattario ad assumere laureati e che la formazione ricevuta dagli studenti è “ambigua”, ossia un po’ professionalizzante un po’ culturalizzante. Ma bisognerebbe anche porsi a monte una domanda: siamo sicuri che spetti ai trienni dare la formazione professionale, per quanto elevata ? non spetterebbe ai trienni istruire maggiormente una generazione culturalmente rozza?

Vi è dunque un problema di modello sbagliato come sostiene Panebianco, o di mancanza di una strategia e di un sistema decente di governo capace di accompagnare una riforma necessaria? Si è posto Panebianco il problema, che si dovrebbe sempre porre chi critica una riforma: che cosa sarebbe successo lasciando le cose così come stavano ? facciamo un’analogia: indubbiamente l’Euro è in crisi, ma è colpa dell’Euro in quanto tale o della mancanza di politiche economiche che avrebbero dovuto accompagnarlo ? inoltre, che cosa sarebbe successo all’Europa senza l’Euro ?

Per chi voglia leggere il documento della Corte dei conti con attenzione tutto questo è ben documentato. Esso indubbiamente ci spiega che non si sono ottenuti i risultati desiderati, ma come sarebbe stato possibile ottenerli con quelle regole e quei gestori delle politiche? Il documento tra l’altro evidenzia dati preoccupanti per il futuro. Su questo sistema già in difficoltà si è abbattuta da due anni una riduzione dei fondi trasferiti dal centro alle singole università per la formazione e la ricerca. Le previsioni sono per un ulteriore peggioramento almeno fino al 2012. Se ne deduce che, se non s’interviene subito nella governance, nel sistema di incentivi agli studenti, ai docenti e alle università, e nei controlli, il sistema universitario implode. Vi è però anche il problema finanziario: tutte le riforme avviate in passato sono state a costo zero, e sono tutte andate male, anche per questa ragione. L’impegno di riforma è indissolubilmente legato a quello finanziario.

Francesco Silva



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