26 aprile 2010

A PROPROSITO DELLA COMMISSIONE PER IL PAESAGGIO


Elegantiae publicae commoditati privatae: così si legge sul portale quattrocentesco di quel che resta di palazzo Castani in piazza San Sepolcro a Milano. Quella scritta incisa nel marmo è il più sintetico trattato di progetto urbano che conosca. Indica le basi del patto non scritto su cui si fonda la costruzione delle città e che consiste in un galateo prima ancora che in regole costruttive e in regolamenti. Ogni organismo privato trae un vantaggio notevole dall’appartenenza alla città: è un frutto che esiste perché c’è l’albero. Più che situarsi sull’albero-città, da esso germina e trae nutrimento. Per questo, nel patto di cui si alimenta l’anima delle città, ogni costruzione è tenuta a ricambiare il dono. Come? Contribuendo al buon gusto e alla bellezza complessiva dell’organismo urbano.

Del resto di cosa rilucono le città costruite come opere d’arte, se non dell’urbanitas: se non del farsi teatro e specchio di uno stile di vita che ha nella misura, nell’affabilità e nel piacere del convivere i suoi fondamenti? La lingua, le cose, i paesaggi, a saperli interrogare, ci dicono a che punto siamo e dove stiamo andando. Si prenda la lingua. Al termine città, da un paio di decenni almeno, nel linguaggio di alcuni ‘esperti’ si sono venuti affiancando degli aggettivi: città diffusa e, più recentemente, città infinita. Eufemismi, come tanti altri a cui il mondo attuale ci ha abituati. Qui l’aggettivo vuole tenere in vita il sostantivo; che però è fuori luogo: s’insiste nel chiamare città una realtà che di urbano non ha nulla o quasi.

L’ultima nata tra le locuzioni è città pubblica. Si presuppone evidentemente l’esistenza di una città privata. Espressione incomprensibile, a meno che non s’intenda per città privata qualcosa di recintato come le gated communities, ovvero la quintessenza della negazione della città. Nella città pubblico e privato sono inscindibili, come il respiro e l’aria. È dalla declinazione, volta a volta diversa, dei rapporti fra privato e pubblico che hanno preso corpo le città.

Si prendano le cose, quelle cose speciali che sono le case. Quelle di Milano ci dicono che il capoluogo lombardo è più che mai La città che sale (Boccioni, 1910). Un occhio non distratto può cogliere le stratificazioni, come un geologo sa riconoscere nella roccia le ere della terra. Le case di Milano dicono dei periodi di crisi economica (ma anche di idee): i sopralzi consentiti dalla giunta Mangiagalli (1922-26); quelli realizzati nel secondo dopoguerra; e gli ultimi, quelli dal 1996 a oggi. I peggiori: cappuccine che sembrano canili per giganteschi alani; rampe di lancio per missili Kassam; sopralzi sopra mansarde, come di chi portasse un cappello su un cappello.

Alla base c’è la subalternità degli amministratori pubblici all’ingordigia della rendita e, a seguire, il preoccupante analfabetismo dei progettisti, come dei tecnici comunali: l’incapacità dei più a riconoscere la logica, spesso sapiente, che governa la composizione dell’organismo su cui si interviene. Ricorrente è lo squilibrio inferto a organismi simmetrici, anche quando la simmetria ha grande rilevanza urbana. Come per l’imbocco di via Dante in piazza Cairoli, nel cuore di quegli interventi dell’ultimo quarto dell’ottocento che Gadda giudicava i «meno “urtanti” nel generale disordine milanese».
È lodevole la campagna contro i graffiti condotta dal vicesindaco Riccardo De Corato e dal Sindaco Letizia Moratti. Non lo dico con ironia. Ma se i graffiti in larga parte li puoi cancellare, gli scempi alla linea del cielo di Milano rimarranno come sfregi perenni al corpo urbano. Sono lì a testimoniare di una caduta della civiltà urbana, di un analfabetismo diffuso in fatto di cultura della città che coinvolge professionisti, tecnici, amministratori e cittadini.

Si sono fatti convegni; qualche volenteroso ha raccolto immagini, stilato elenchi, prodotto quantificazioni, ma il Dossier sul recupero dei sottotetti di Milano è ancora da produrre. Una volta pronto, dovrebbe essere consegnato alla Corte di Giustizia Europea con una richiesta di imputazione: la mancata difesa di Milano da parte di chi era tenuto a vigilare su un prezioso patrimonio comune come il decoro e la bellezza di una città. A rovinare ulteriormente la linea del cielo ci sono gli ultimi regali della tecnica: impianti di condizionamento grandi come container; antenne dei cellulari come spelacchiate reclam della matita Presbitero; e dappertutto padelle, padelle, padelle (le antenne per la tv satellitare). Sono proibite in facciata dal 2006 dal regolamento edilizio, ma la norma non viene fatta rispettare. Ormai questa città ti rifila in abbondanza colature di truogolo senza che nessuno, cittadino, amministratore o vigile urbano, abbia un moto di ribellione, uno scatto d’orgoglio. Se Dio è nel dettaglio – ben prima di Aby Wartburg e Mies van Der Rohe è Gustave Flaubert a sostenerlo in una lettera a Louise Colet («Le bon Dieu est dans le détail») – Milano è da tempo una città senza Dio.

Veniamo al dunque. Che differenza corre fra la Commissione d’Ornato instituita nel 1807 per redigere il Piano (dei “rettifili”) di Milano e controllare l’edilizia pubblica e privata della città – quella composta dagli architetti Giocondo Albertolli, Luigi Cagnola, Luigi Canonica, Paolo Landriani e Giuseppe Zanoja – e l’attuale Commissione per il Paesaggio presieduta da Pierluigi Nicolin e composta da altri 10 membri insediata il 29 novembre 2009? La Commissione del 1807 operava in una fase di rilancio della vicenda urbana che aveva un soggetto sociale protagonista: la borghesia in ascesa, che, scegliendo la scena urbana come teatro su cui accreditarsi, faceva del bene alla città: ne rilanciava la vicenda. Quella attuale opera in una fase di declino dello spirito urbano testimoniato da molti fatti e segnali convergenti.

Ma proprio per questo il Manifesto degli indirizzi e delle linee guida, votato dalla Commissione per il Paesaggio del Comune di Milano nella seduta del 4 febbraio 2010, va guardato con attenzione. È un documento che enuncia principi elementari che dovrebbero essere alla base, oltre che del PGT, della politica ordinaria, giorno per giorno, atto per atto, della Pubblica Amministrazione. Si pone attenzione ai piani terra e dunque al rapporto fra interno ed esterno, fra privato e pubblico. Si afferma di volere «favorire il mantenimento e la rivitalizzazione dello spazio stradale»; di voler indurre «a fare ‘più città’ cercando quanto possibile di costituire spazi stradali pubblici, isolati, giardini, ecc. caratterizzati da permeabilità e interconnessioni con i quartieri circostanti». Si dichiara che «verranno apprezzate le proposte che propongono i valori di prossimità, convivenza, coesistenza nel contesto di un’architettura urbana».

Quanto ai ‘Grandi Progetti’, infine, la «Commissione auspica una programmazione da parte dell’Amministrazione e dei singoli operatori che preveda l’attuazione […] per comparti edilizi compiuti, dotati di un’indiscutibile morfologia urbana e una visualizzazione delle varie fasi di realizzazione che rappresenti i diversi stadi dell’impatto di queste trasformazioni sulla città». Lo spettacolo dei grandi interventi incompiuti (Innocenti/Maserati, Montecity-Rogoredo, Porta Vittoria ecc.), per non parlare delle voragini di diversi scavi per i parcheggi sotto gli spazi pubblici, va disseminando la città di moderne rovine: a segnare una regressione dello spirito urbano e insieme un’incapacità di governo delle trasformazioni da parte di chi ha la responsabilità della Cosa Pubblica.

Quel Manifesto è una piccola luce che si accende nella spaventosa lunga nottata in cui siamo precipitati. Merita attenzione e un incoraggiamento.

Giancarlo Consonni




Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti