19 aprile 2010

VENTICINQUE APRILE 1945


Quel venticinque aprile noi ci trovavamo dall’altra parte. Anzi, come la gran parte degli italiani, eravamo in mezzo, ma più di là che di qua. In mezzo lo eravamo davvero perché la casa del nonno, dove tutta la famiglia si era rifugiata dopo il primo bombardamento di Milano del 23 Ottobre 1942, stava in terra di nessuno, a un paio di chilometri dal lago sulla strada per Premeno. Di giorno la zona era sporadicamente pattugliata dai fascisti repubblichini, accompagnati, ma solo nelle grandi occasioni, dai tedeschi. Di notte i partigiani scendevano per lo stradone con la venti millimetri per andare a sparare alla Casa del Fascio di Intra dal giardino della Villa Tranquillini al Motto. La venti era montata su un carro che, di giorno, come tutti in paese sapevano benissimo, stava nascosto sotto il fieno nel garage dell’architetto Minali su a Cargiago. Ma il più delle volte era proprio terra di nessuno, cioè di chi ci abitava, ma sopratutto dei bambini del paese che, grazie a quella straordinaria situazione, se ne erano totalmente impadroniti con la massima libertà, tanto che in certi momenti il paese mi appariva veramente come Timpetill la città senza genitori, uno dei miei livres de chevet di allora.

La casa del nonno giaceva allungata sul pendio come una nave a poppa quadra, con la prua rivolta in giù. Il giardino era triangolare e finiva a valle con un terrazzino rialzato coperto di glicini. A metà stava il cubo della casa, quattro lati e un tetto rosso, con un terrazzino a due piani sul fronte, vera plancia di comando e ponte panoramico della casa, mentre la base del triangolo stava a monte verso Premeno. Qui si trovavano il garage, il pollaio e una seconda casetta dove il nonno, che non andava più in negozio a Milano dopo il colpo che gli aveva lasciata la bocca storta, stava tutto il giorno rintanato a curare i polli, far la posta ai piccioni con strane trappole a ghigliottina da lui stesso costruite e generalmente a starsene al riparo dalla famiglia. La casetta del nonno era collegata alla casa principale con un cavo elettrico: se il nonno stava male o voleva qualcosa girava un grosso interruttore a vista e faceva suonare da noi un campanello grosso come quello di una doppia sveglia a molla.

Noi bambini razzolavamo dappertutto, ma sopratutto sul castello di prua ricoperto di glicini, punto di osservazione avanzata per guardare chi saliva lungo il bianco stradone che costeggiava la casa. La prua si affacciava anche su un piccolo crocicchio su cui convergevano anche le stradine che, da un lato, portavano alla frazione di Biganzolo e, dall’altro, a un torrente che si chiamava “il Riale”(Riaa) e poi a San Giorgio, quattro case in fila collocate su un costone dietro cui spuntavano in lontananza le cime del Monterosa. Oltre la prua lo stradone scendeva verso lago fino al curvone del Brusati che ci chiudeva la vista dopo un centinaio di metri.

I bambini non avevano un nome per questa località, ma con il tempo ho scoperto che veniva chiamata “La Campagna” come se il resto fosse una gran città. Questa posa di urbanità trovava eco nella pretesa delle maestre che a scuola si adottasse il testo di lettura per le classi urbane e non quello per le classi rurali, con effetti catastroficamente esilaranti quando l’inconsapevole autore cercava di spiegare a quell’espertissima scolaresca a piedi scalzi, la vita di lucertole e uccellini, che lui probabilmente non aveva mai visto dal vero. In effetti se guardiamo ai nomi il paese era tutto campagnolo. La scuola elementare, l’osteria, che poi passò in gestione alla cooperativa rossa, e la villa a castellozzo (con i merli di prammatica) della Signora del paese, si affacciavano su uno spiazzo chiamato La Pastura, nel quale i bambini giocavano al calcio, ma che più in generale serviva alle feste del paese e da balera per la cooperativa. Un’altra frazione si chiamava Antoliva, anche se le olive ai miei tempi non c’erano più, e un’altra, La Selva.

In paese, salvo noi e una manciata di “sfollati” dalle città bombardate, erano tutti con i partigiani. Mio padre era fascista, come lo erano stati quasi tutti gli italiani, ma forse con un impegno civile maggiore. Certamente non era stato un picchiatore, ma, come si diceva allora, “uno che ci credeva”. Intendendosi nel codice non scritto della borghesia italiana, uno un po’ fesso, che credeva ai valori sbandierati dal regime senza approfittarne. Figlio di un militare di carriera piemontese, morto dalle parti di Misurina nei primi giorni della Grande Guerra, vittima della ritardata eliminazione della “sciabola lucida” e della pessima logistica che lo aveva lasciato dissanguare era “orfano con madre vedova di guerra”, e non era stato richiamato in guerra nell’esercito regolare. Per questo si era presentato come volontario nella milizia nazionale fascista per la campagna in Africa Settentrionale. E, come benvenuto, lui che lasciava un posto direttivo in una grande assicurazione, si era sentito dire dal perenne sportellista italiano: “ecco un altro morto di fame”. Un primo significativo contatto con il mondo degli “otto milioni di baionette”, di cui mio padre ha riportato una straordinaria testimonianza fotografica, avendo comperato da un ufficiale tedesco una Contax a tendina, scatti fino a 1/1250 con obiettivo Zeiss anteguerra che ho ancora. I rullini delle pellicole, raccattati qui e là di sottobanco, li nascondeva cucendoli nel bordo del cappotto grigioverde che diventava via via più rigido dandogli un’aria pomposa da uno sempre sull’attenti. E’ il racconto di una guerra di poveri straccioni, morti di fame per davvero, mandati allo sbaraglio da un dittatore buffone, commediante tragico che, come spiegherà bene Denis Mac Smith, nel suo splendido libro sulla propaganda fascista, era soprattutto un formidabile esperto di comunicazioni di massa, da giornalista di professione. Ma sopratutto da retore ignorante e senza vergogne: Ma evidentemente mio padre godeva di stima generale, perché poco prima dellla liberazione, quando ormai i destini erano segnati, si rifiutò di passare in Svizzera con altri che temevano a torto o ragione rappresaglie da parte dei partigiani vittoriosi. Che non mancarono perché sulle montagne del Verbano e dell’Ossola la lotta era stata dura e per vario tempo dopo la fine della guerra, verso sera si sentivano le raffiche di mitra delle esecuzioni provenire dal Campo sportivo di Intra.

Insomma eravamo stati sbattuti là dalla gran risacca della guerra e tutto sommato ci trovavamo come su un’isola inquietantemente felice, nell’occhio del tifone, come leggevamo nei romanzi di Salgari, che rappresentavano una delle letture principali dei due o tre intellettualini della classe. Che discussero a lungo sul modo in cui si dovesse pronunciare la Y, deliberando poi che stava per una V. Cosicchè lo yacht di Yanez suonava il Vact di Vanez. Attorno a noi la guerra si aggirava piuttosto all’orizzonte degli eventi. Ogni tanto là sulle montagne si sentiva il “tah pum!” del ’91. “Ecco il tapum” commentavano i ragazzetti più esperti on l’aria di chi sa tutto. O qualche raffichetta di Sten, che arrivava assai più attutita. Più di frequente arrivavano gli aerei. Quelli facevano paura, aveva un bel dire mio padre che quando erano sopra la testa il pericolo era già passato. In genere, venendo dalla Svizzera, sganciavano proprio all’altezza di casa nostra e la bomba esplodendo qualche centinaio di metri più in basso, faceva un frastuono tremendo. Quando suonava l’allarme tutti scappavamo in casa tirandoci dietro anche quelli che in quel momento passavano sulla strada lì davanti. Mi ricordo che una volta c’era anche un signore alto di Arizzano o Cargiago, uno dei paesi più a monte, entrato nel corridoio tenendosi stretta la sua bicicletta e con il suo bel cappello in testa, che, mentre ci stringevamo tutti tremebondi nel retro della casa sotto le scale, incitava gli Alleati a bombardare e, quando finalmente si è sentito il botto gridava, cercando di indovinare da dove veniva, “l’ha centrata, l’ha centrata!”. Intendendosi la caserma della X Mas di Intra, che forse il pilota non sapeva neppure dove si trovasse, ma forse si. In realtà si seppe poi che la bomba era andata a finire sul campo sportivo, ma il giorno dopo, quando come al solito stavo a spiare dalla siepe l’anabasi dei ciclisti, il signore col cappello, che ormai era entrato a far parte delle nostre conoscenze, passando gridava “l’hanno mancata di poco” e ci faceva vedere con le mani giostrando sul manubrio quanto vicino era andata la bomba all’obiettivo che lui le aveva assegnato.

E poi c’era il Pippo, che capitava di solito a metà mattinata con il ronzio regolare dell’elica che a un certo punto aumentava di frequenza e tutti sapevamo che stava scendendo in picchiata su un bersaglio. Un paio di volte il Pippo è passato fragorosamente sopra la scuola senza che avessimo neppure il tempo di evacuare. Così tutti, scolaresca e maestre, stavano li seduti e impietriti in attesa dell’esplosione finchè il rumore non si allontanava. Ma il rumore più terrorizzante era quello sordo e notturno degli squadroni che a ondate andavano a bombardare Milano. Passavano per ore parecchio alti sopra di noi, ma erano tanti e il rombo faceva tremare i vetri della casa. Allora la zia veniva in camera dalla mamma e stavano a torcersi le mani e a consolarsi a vicenda, al lume delle abat-jours, perché un poco dopo il passaggio della prima ondata si cominciava sentire il rumore delle bombe su Milano. Un brontolio sordo, proprio come si legge sui libri, lungo, insistente e senza sosta, che si accompagnava ai bagliori della contraerea che s’intravvedevano nella foschia verso la fine del lago, come un mostruoso budino di cioccolata che tremolava là nel fondo nella notte. Dentro al quale stavano gli uomini della casa, mio padre e lo zio Dodo, che lavoravano in città e che sicuramente in quel momento erano da qualche parte là sotto.

Io affinavo e temperavo il mio udito al calor bianco del mio terrore, un terrore metafisico, non collegato a un pericolo immediato, perché avevo imparato che in quei casi pericolo per noi non c’era e forse non riuscivo neppure a concepire il pericolo per papà, che per me era un’entità immortale che prima o poi rispuntava sempre dalla curva dello stradone. Ma c’erano il rumore, la tensione delle donne, i tremori della veglia notturna e tutte le altre paure collegate al buio fragoroso e minaccioso che ci circondava. Quanto a rumori di aerei io ero l’esperto incontestato della maison. Si diceva in famiglia perché avevo le orecchie a sventola, che poi a guardar bene non era neppur vero, sta di fatto che io sentivo gli aerei in arrivo un buon cinque minuti prima degli altri. In realtà la spiegazione positivistica, o ingegneristica che dir si voglia, era del tutto sbagliata. La mia straordinaria capacità aerofona non dipendeva dalla superficie auricolare, ma era direttamente proporzionale al terrore per i bombardamenti che aveva le sue radici dall’esperienza del primo bombardamento dell’Ottobre del ’42, subito in una cantina di Piazza Diaz.

Di giorno però, quando capitava, gli aerei si dovevano guardare bene perché poi a scuola seguivano lunghi dibattiti sullo spotting. Di aerei nostri non ce n’era praticamente più, ma una prova sicura che fossero americani era il loro scintillio. Tutti gli altri erano mimetizzati, color cachi o oliva a macchie, ma le fortezze volanti “Liberator” (gli americani erano già bravini con le parole) attraversavano il cielo scintillando con l’improntitudine di chi se ne sbatte nel modo più assoluto. Era un gran bel vedere, soprattutto quando passavano un po’ in là. E noi, i ragazzini del paese, ma certo anche gli adulti, stavamo lì con il naso in su, rapiti a vedere questi uccelli dai baluginii brillanti come un’arborella nello stagno. Così appena i miei padiglioni auricolari fisici, potenziati dalla paura mi segnalavano un aereo in avvicinamento io correvo fuori sul terrazzino per fare il rilevamento. Spesso erano lontani, ma capitava che in mezzo a un frastuono assordante passassero a volo radente gli spitfires, con quel movimento danzante con le ali che fanno mentre mitragliano e con le fiammelle dei cannoncini che ci avresti potuto accendere il fuoco.

I partigiani. Che in paese tutti fossero con i partigiani, salvo i pochi borghesi sfollati, e le pochissime famiglie impegnate con la Repubblica di Salò, lo si capiva benissimo perchè tra i miei compagni di scuola ero l’unico che, ripetendo le cose che sentivo in casa, prendevo talvolta le parti dei fascisti. E un giorno che eravamo tutti sulla prua del giardino con i miei compagni, mia madre mi ha chiamato in casa e mi ha detto un bruscamente di non usare quegli argomenti. Ma i partigiani rimanevano soprattutto un’entità mitica che si muoveva nella notte.

Una sera, mentre eravamo nel soggiorno, che veniva chiamato tinello, bussano alla porta, da estranei. Rapidamente il papà e lo zio vanno ad aprire, mentre si diffonde il clima delle emergenze e si chiude ritualmente la porta tra il soggiorno e l’anticamera. Non tanto rapidamente però perché non si faccia in tempo a intravedere qualcuno che entra con un mitra in mano a canna in giù. I partigiani! Si sente confabulare e poi qualcuno sale al piano di sopra mentre chi è rimasto scambia rade parole con i visitatori piazzati mezzo dentro e mezzo fuori sulla porta. Finalmente chi è salito scende e, dopo un altro breve scambio gli ospiti se ne vanno mentre gli uomini di casa chiudono la porta di ingresso e riaprono quella della cittadella, rientrando in salotto con l’aria soddisfatta. La tensione esplode in una serie di domande confuse. Cosa volevano. Chi erano. Gli uomini spiegano che erano tre partigiani e che avevano chiesto “molto educatamente” dei vestiti. Al che lo zio era salito per prendere una giacca a vento, dei golf e delle calze e guanti di lana. Non credo che abbiano lesinato nel dare, il sollievo di essersela cavata a buon prezzo era tale che delle cose date, che pure non erano abbondanti neppure per noi, quasi non si è parlato. E poi non avevano intenzioni aggressive; mio padre, che era stato in guerra, ripeteva con soddisfazione di essersene accorto subito perché non avevano il caricatore innestato.

Li conoscevo bene questi caricatori del Beretta adattato o dello Sten, 9 mm corto parabellum. Una scatoletta rettangolare di lamierino nero di un paio di centimetri per uno, alto un venti centimetri con una molla in fondo che si poteva togliere sfilando a slitta il fondalino di lamiera. La molla terminava con un soppalchino di alluminio sagomato tondeggiante a due piani che, a caricatore vuoto, si bloccava su due ricciolini della lamiera del caricatore. Le pallottole si infilavano facilmente dall’alto a una a una premendo in basso la molla e facendole poi scivolare dentro in due file parallele sfalsate di mezza pallottola. Questo marchingegno spingeva su una pallottola alla volta verso la camera da sparo del mitra che poi buttava fuori il bossolo da un’altra parte. Noi, dico noi bambini e bambine piccolissimi, passavamo ore a riempire un caricatore e a svuotarlo, o togliendo la slittina del fondo o spingendo fuori le pallottole a una a una dall’alto con il pollice. Un marchingegno di una semplicità ipnotizzante, mi domando quanto spesso s’inceppasse quando lavorava davvero. Vuoto non pesava nulla, ma con le due file di una ventina di pallottole aveva una consistenza rassicurante. Di pallottole di mitra ce n’erano tante che non mi ricordo che fosse mai un problema riempire un paio di caricatori che venivano poi ostentati alla cintura nella repubblica dei bambini.

Il partigiano Manzoni. Chi aveva condotto le trattative era un certo Manzoni, quello dei tre entrato in casa e che, forse, mi era sembrato di capire, aveva anche tenuto a bada pretese più spinte di qualcuno che era rimasto minaccioso nel buio brontolando. Ma in ogni caso un po’ per la paura passata un po’ per genuina simpatia la serata finì con la generale soddisfazione di aver stabilito un contatto con qualcuna delle divinità minori che si aggiravano nel buio della notte fuori dai confini del compound e che si manifestavano spesso con spari secchi, tonfi di bombe lontane, sbrillii di mitraglia e cattivi ronzii di pallottole. Da quella sera il partigiano Manzoni fu adottato dalla famiglia: a poco a poco la sua figura emergeva dall’ombra, anche perché era uno abbastanza conosciuto in paese e le sue gesta venivano amplificate enormemente nei racconti degli scolari. Una volta fummo presi in mezzo a una scaramuccia proprio all’uscita della scuola e ci gettammo tutti a ridosso di un muro dove stavano già accovacciati un gruppetto di partigiani, compreso il Manzoni che ci strizzava l’occhio sopra la spalla per rassicurarci. Me lo ricordo bene con i pantaloni tesi che aspettava l’occasione per saltare via.

A sua insaputa il “Partigiano Manzoni” era così diventato un nume tutelare della casa e quando, dopo un primo non riuscito assalto, qualche settimana prima della Liberazione, la colonna dei partigiani si ritirava risalendo verso Premeno, noi eravamo tutti sul terrazzino del primo piano a guardare lo stradone e a un certo punto il Partigiano Manzoni ci ha visto e ci ha salutato, consolidando definitivamente il tutelage con il farci vedere a grandi gesti la giacca a vento dello zio con dentro qualche foro di pallottola o forse solo strappi. E ci gridava tutto allegro, “adesso ci ritiriamo, ma torneremo presto”. Nella mia memoria la Liberazione coincide con l’immagine anticipatoria della colonna del Partigiano Manzoni che si ritirava in allegria. Del giorno preciso del 25 Aprile non ho altri ricordi, salvo che eravamo tutti in strada ed io ho visto che sull’erba del Prato Comune era caduta una spolverata di neve.

NOTA Questo è lo stralcio di un articolo pubblicato in Diario, in occasione del 25 Aprile di 8 anni fa.  La storia però ebbe un seguito, che richiede una premessa. I ricordi che raccontavo nell’articolo erano molto privati e non credo di aver mai più parlato di quegli eventi con alcuno nella mia famiglia, del resto nel 2002 tutti scomparsi da tempo, con l’eccezione di mia madre già molto vecchia e sicuramente non lettrice di Diario. Quindi i ricordi di cui parlavo, compreso il nome del partigiano, venivano dal profondo del mio ricordo e (esatti o falsi che fossero, il problema non me lo ponevo in alcun modo) erano incontaminati.  E’ quindi immaginabile la mia sorpresa e l’emozione, quando dopo un paio di settimane, mi telefona una persona che si annuncia: “io sono il figlio del partigiano Manzoni”. E mi spiega che dopo aver letto il raccontino avevano a lungo discusso in famiglia ed erano giunti alla conclusione che quel partigiano era il padre, nel frattempo scomparso. Poi ci siamo visti: un giovane simpatico e mingherlino che, tra l’altro, aveva anche seguito un corso con me a Scienze politiche negli anni ’60 e che ora lavorava in Svizzera alla RTI. Quella volta mi ha anche portato un libro scritto dal padre, sulla sua esperienza partigiana. Un bel libro che ora non trovo, (ma ce l’ho, ce l’ho ancora) e che mi sono messo a leggere con grande interesse, ma anche con un certo disagio perché facevo fatica a ricollocare in una figura storica veramente esistita, il mito del mio ricordo. E benché fosse evidente che l’autore conosceva bene i luoghi della mia infanzia, non ero convinto che fosse la stessa persona della mia memoria; intanto le fotografie non coincidevano con il ricordo visivo che avevo elaborato e poi non sapevo se desideravo una conferma oppure se mi disturbava che qualcuno si fosse intruso nel mondo della mia mitologia personale. Così proseguivo nella lettura passando da una convinzione a quella opposta, è lui, no, non lo è, finché nelle ultime pagine del libro si descrive, vista dal basso, la medesima scena che racconto io nelle ultime righe del racconto, quando i partigiani risalgono verso Premeno salutando e salutati dalle persone affacciate ai balconi. Questo corto circuito per cui i due racconti si incastrano come due tessere di un mosaico e, per così dire, due persone si guardano negli occhi attraverso il tempo, mi ha provocato una sensazione così forte che non sono in grado di raccontarla senza retorica. Non è retorica invece, io credo, pensare che parlare con una persona morta attraverso il tempo e grazie ai reciproci scritti è forse l’esperienza più toccante che possa capitare a chi ha la fortuna di raccontare e raccontarsi con la parola scritta.

 

Guido Martinotti


 



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