12 aprile 2010

MILANO BRUTTA PER SEMPRE? MA CHI L’HA DETTO?


Sapete qual è la vera ricchezza di Milano? Paradossalmente, ma neanche troppo, la sua ricchezza è nascosta nella sua bruttezza apparente. Se paragonata alle città d’arte, Roma, Venezia, Firenze, per citare le più ovvie, Milano è una città povera di monumenti, di chiese e di resti archeologici. Le sue case e i suoi palazzi non parlano di storia, non riecheggiano il Rinascimento, non rimandano a nomi illustri e a nobili casati. I palazzi di Milano esprimono il linguaggio della borghesia industriale e industriosa di fine ottocento. Le sue case di ringhiera parlano di classe operaia e contadini inurbati. Persino i suoi monumenti più famosi sono pressoché dei falsi. La facciata del Duomo e le sue tante guglie di gotico hanno solo l’aspetto, poiché sono state portate a termine alla fine dell’Ottocento. E il Castello Sforzesco, per come lo vediamo oggi, deve le sue sembianze al restauro un po’ disneyano dell’architetto Luca Beltrami compiuto nel 1905.

Va anche detto che il centro storico del capoluogo lombardo ha subito pesanti devastazioni durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Altri danni (a volte peggiori) sono stati fatti durante la ricostruzione. E dove non sono arrivate le bombe ci avevano già pensato gli sventramenti degli anni trenta (del novecento) a stravolgere i pochi resti del tessuto medievale della vecchia Mediolanum. Penso alla demolizione del Bottonuto, alla parziale apertura della “racchetta”, al Quartiere degli Affari e a tutte quelle altre operazioni figlie e ispiratrici al tempo stesso del piano Albertini.

Per equità bisogna riconoscere che nello stesso periodo Milano ha vissuto forse il periodo più felice degli ultimi cento anni dal punto di vista della storia dell’architettura. L’architettura del ventennio fascista soprattutto a Milano costituisce un corpus significativo, non solo per numero, ma anche per qualità e riconoscibilità di linguaggio. Un linguaggio dai cromosomi ben definiti, che si esprime attraverso la costruzione di palazzi in cui neoclassicismo e razionalismo vengono sapientemente mescolati e declinati ecletticamente da bravi e al più sconosciuti professionisti, che mettono in opera attraverso la pietra e il cemento le esigenze di rappresentanza della loro committenza: la borghesia milanese. La tripartizione della facciata (zoccolo in pietra, corpo centrale e coronamento) diventa una cifra stilistica imprescindibile. Il tema dell’angolo viene risolto nei modi più diversi e fantasiosi. Il motto “simmetria sbaglia mia” diventa importante quanto gli insegnamenti tecnici del Regio Politecnico.

Per semplificare possiamo dire che ciò che viene realizzato a Milano tra le due guerre, (case popolari e palazzi borghesi) ha una sua dignità. La ricostruzione postbellica, i fenomeni migratori degli anni 60 -le famigerate “coree”- generano un incremento del tessuto edilizio privo di alcuna qualità. Salvo rare e preclare eccezioni, è difficile parlare di architettura per quello che viene costruito a Milano in quel periodo. Quasi tutto ciò che si trova tra i confini comunali e la circonvallazione costituisce un informe coacervo di mattoni, cemento, ferro e vetro.

Ecco, in questo magma ribollente di pezzi diversi di città (sommatorie scalene di periferie ed ex Corpi Santi), drogati da un’overdose di brutti palazzi e casermoni geometreschi brulicanti di varia umanità (e fin qui niente di male), sorti senza criterio (e questo è un danno), se non quello del massimo sfruttamento dei suoli, risiede la ricchezza nascosta (in realtà ben in mostra) di Milano. Ricchezza intesa come opportunità. Opportunità di adattarsi, potenzialità di adeguarsi in modo repentino ai cambiamenti della società contemporanea.

Detto banalmente: un tessuto edilizio brutto e privo di significato può essere demolito senza rimpianto, per costruire nuove architetture e nuovi tessuti più confacenti ai bisogni attuali. Non ci sono monumenti da rispettare o contesti di cui tenere conto. Non essere una città d’arte rende Milano più incline alle trasformazioni urbane e quindi più dinamica e capace di adattarsi almeno in teoria ai mutamenti/mutazioni della società.

Il rovescio della medaglia, ma è pure una possibile spiegazione, risiede nell’attitudine dei milanesi a non sentirsi legati a nulla, né vincoli, né richiami culturali anche perché è sempre più difficile decifrare i tratti della milanesità originaria nei fatti urbani di Milano.

La disinvoltura un po’ incosciente con cui i milanesi affrontano le trasformazioni è comunemente considerata mancanza di sensibilità, di cultura, di senso della storia, ma è anche sintomo di una vitalità, di un’energia attiva, capace di sorprendere e di sopravvivere alle congiunture più negative. C’è un ottimismo di fondo geneticamente radicato, magari un po’ velleitario, ma sempre propulsivo e positivo. Misurabile empiricamente dal numero delle gru che punteggiano lo skyline meneghino.

I grandi progetti di trasformazione in atto possono essere letti come mere operazioni speculative, ma sarebbe estremamente superficiale e tipico di una certa “intellighenzia” limitarsi alla critica sterile e donchisciottesca. Bisogna avere il coraggio di ammettere che questi progetti rappresentano, oltre al vile denaro che li muove, una risposta –se pur parziale – ai temi di cui solitamente discutiamo. Basta saper leggere tra le righe e avere la voglia di interpretare positivamente certi segnali. Rimangono poi mille questioni aperte. Il costo degli alloggi, la qualità dei servizi, etc. Ma il tessuto stesso (edilizio e sociale) del capoluogo lombardo contiene in sé già molte delle risposte a questi problemi. Basta saper cercare.

Milano sta cambiando. Evitiamo di rimanere noi ottusamente indietro.

Pietro Cafiero



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