12 aprile 2010

QUELLA DI PENATI È UNA PROPOSTA DA PRENDERE SUL SERIO


La proposta fatta da Penati di impedire per un certo periodo, dieci anni, l’edificabilità delle aree industriali dismesse va presa sul serio. È chiaro che, essendo stata fatta nel contesto della campagna elettorale e per di più durante un incontro con lavoratori in lotta per la difesa del posto di lavoro, sconta una certa improvvisazione, ma è comunque un elemento di novità nell’approccio al governo territoriale che merita una seria considerazione per alcune buone ragioni. Soprattutto ha il pregio di mettere assieme, e per il verso giusto, due aspetti, economia e governo del territorio, che sarebbe finalmente tempo di considerare due facce della stessa medaglia. I piani urbanistici, soprattutto nella sconsolante realtà provinciale milanese, sono già in realtà un fatto economico rilevante, ma gli argomenti, le motivazioni e le ragioni della commistione sono del tutto sbagliate.

Dalla normativa regionale alla casistica dei vari strumenti di pianificazione nella gran maggioranza dei comuni emerge infatti un pensiero unico: usare il suolo come volano per fronteggiare tutte le emergenze finanziarie (bilanci) e politiche (consenso) e, in definitiva, come banca, o pagatore di ultima istanza. Il suolo può produrre ricchezza per tutti! Pensiero davvero profondo. In realtà arricchisce pochi e impoverisce molti. Non è un esempio di scambio perfetto, è il paradigma dello scambio ineguale.

Non è elegante ricorrere all’autocitazione, ma quante volte abbiamo sostenuto, anche sulle pagine di Arcipelago, che consentire e addirittura favorire la valorizzazione delle aree produttive non può che accelerare la crisi delle aziende perché stimola appetiti speculativi anche laddove c’era la cultura del lavoro? “Perché devo rovinarmi la salute nelle trattative con le banche e con i sindacati, perché devo rischiare, ingegnarmi a innovare e cercare commesse in giro per il mondo quando ce ne sono tanti che se la spassano dopo aver chiuso bottega e costruito quattro orrendi palazzotti?” Non è questa la storia della INSSE? Non è questa la storia di tante industrie tessili che forse, in assenza di uno sbocco immobiliare così risolutivo ed economicamente vantaggioso, avrebbero potuto sopravvivere più a lungo, magari rinnovando la linea dei prodotti, o migliorando la qualità dei tessuti, o cercando una nicchia di mercato temporanea in attesa di tempi migliori?

Forse in nessun settore della vita pubblica come nel governo delle città abbiamo dimostrato una così disarmante incapacità di governo e di gestione dei problemi. “Perché la vittoria finale di una tendenza dovrebbe essere assunta come prova dell’inefficacia degli sforzi per rallentarne il progresso? (…) Ciò che è inefficace nell’arrestare completamente una linea di sviluppo non è per questo motivo completamente inefficace. Il ritmo del cambiamento spesso non ha minore importanza della direzione del cambiamento stesso, ma mentre quest’ultimo non dipende dalla nostra volontà, il ritmo al quale permettiamo che il cambiamento abbia luogo può dipendere da noi.” Polanyi criticava così l’economicismo ideologico che aveva dapprima favorito nei secoli la privatizzazione delle terre demaniali condannando alla miseria una gran massa di individui e più tardi disarmato i governi di fronte alle devastazioni sociali della rivoluzione industriale.

È chiaro a tutti che la globalizzazione e le nuove regole della competizione internazionale disegneranno anche in Italia un paesaggio produttivo diverso, ma non è irrilevante la gestione e il controllo di questo processo in sé ineluttabile. Abbiamo ascoltato chi invocava un nuovo protezionismo, chi l’embargo per i prodotti cinesi, chi se la prendeva con l’Europa che osteggiava la pizza cotta nel forno a legna, addirittura qualcuno ha auspicato l’autarchia e il ritorno nell’alveo, Dio, Patria e Famiglia! Ne abbiamo sentite tante in questi anni e intanto nelle nostre città e nelle sedi legiferanti, giorno dopo giorno, si preparava il disastro.

La proposta “Penati”, a prenderla sul serio, è dunque tardiva quanto opportuna: le nostre città non sono ancora del tutto devastate dalla spianificazione e il nostro paese ha tenuto meglio di altri nella prima grande crisi del secolo. La buona resistenza economica è dovuta proprio alla debolezza del settore immobiliare e alla ancor giovane finanziarizzazione del settore: sono stati proprio questi elementi, associati a una scarsa dipendenza dell’economia dal turismo, che ci ha tenuto un po’ al riparo dal forte apprezzamento dell’euro, che ci hanno permesso di dire che l’Italia ha retto meglio della Spagna. Oggi si parla, in maniera del tutto irresponsabile, di rilanciare l’economia attraverso le costruzioni, un piano casa da 50 miliardi, e di portare il turismo al 20 % del PIL. C’è sempre tempo per far danni e il peggio non è mai morto. Non siamo né contro le costruzioni né contro il turismo, ma il peso di questi settori nella composizione totale del PIL non deve essere eccessivo proprio per non creare una pericolosa dipendenza.

In altri termini non si possono rilanciare costruzioni e turismo a scapito dell’industria. Passata la campagna elettorale è quasi certo che non si parlerà più di blocco edificatorio sulle aree lasciate libere dalle industrie. È già partita la nuova campagna per Milano e non c’è motivo di pensare che sarà diversa dalle altre, tanto strepito, conformismo totale e sconfitta sicura.

Sarebbe utile invece mettere in campo un’idea di governo territoriale che sia un po’ meglio di quell’insieme tenebroso che abbiamo visto in questi anni: la concertazione della legge12, l’insensatezza e il velleitarismo del PTG milanese, i regali fatti a Grossi, Zunino, Ligresti, lo stakanovismo delle banche a favore della speculazione immobiliare. Riprendiamo questa idea fuori dalla bagarre elettorale e ragioniamoci sopra seriamente. Costruiamo una proposta pulita, che guardi insieme al capitale economico (le aree) e sociale (lavoratori e imprenditori) della città. È probabile che bisognerà distinguere tra gli avventurieri immobiliari e gli imprenditori onesti che prima di arrendersi le hanno tentate tutte. Forse dieci anni non sono poi tanti, per gli avventurieri, perché il vincolo edificatorio può essere anche letto a rovescio. Chiudi tutto e dopo appena dieci anni potrai costruire. E nel frattempo puoi impegnare gli immobili, capitalizzare la rendita, finanziarizzare. C’è da discutere ripeto, ma qualcosa bisogna pur fare. Le aree industriali sono una risorsa, una ricchezza per la città. Ma lo sono soprattutto finché rimangono tali.

 

 

Mario De Gaspari

 


 



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