12 aprile 2010

I MIGRANTI E LA RICCHEZZA DI MILANO


Giuseppe Ucciero

 

Il richiamo alla Ricchezza delle Nazioni di Smith non mi convince come riferimento di un Racconto sulle Ricchezza di Milano: troppo lontana nel tempo, la Bibbia del Liberismo economico, e troppo inadeguata rispetto alla comprensione moderna della complessa relazione mercato – stato, per farne il punto di riferimento di una riflessione costruttiva sulla città di Milano. Poiché, comunque, il riferimento è stato dato, lo assumerò esplicitamente e come contrappunto polemico, per svolgere alcune considerazioni su cosa oggi è, o non è, la ricchezza di Milano.

Intanto sgombriamo il campo di una visione per così dire olistica, autosufficiente, di Milano, così come, d’altra parte, di qualsiasi città o metropoli. La città cresce e si afferma storicamente nel quadro di una relazione di separazione – dominio con il contesto circostante, un tempo la campagna, oggi il territorio con le sue reti. Se un tempo la relazione era limitata al contesto locale più vicino, regionale o al massimo nazionale, oggi, si dovrebbe riconoscere che la relazione di Milano con il mondo, con le mille periferie planetarie di cui è metropoli, è centrale, cioè costitutiva della sua stessa esistenza.

Milano come metropoli, come nodo di un sistema di produzione e di distribuzione della ricchezza globale. Possiamo pure cullarci nella visione di una Milano che crea da sola la propria ricchezza, che valore – denaro – case – merci siano solo l’esito di un’imprenditorialità diffusa, creativa e competitiva, ma le cose non stanno così: le sue merci, i suoi servizi, il suo denaro, si situano in un sistema planetario, dove si produce, affluisce e viene inegualmente distribuito, il valore generato dagli operai vietnamiti, dai contadini sudamericani e dai minatori africani, oltre che s’intende dai nostri bravi imprenditori e lavoratori.

Con il valore e con la sua ineguale distribuzione, si spostano sempre più anche le persone, i migranti, e su questo punto specifico vale la pena di parlare quando si affronta la Ricchezza di Milano. Nella nostra area metropolitana, dentro e fuori dai suoi confini ormai puramente formali, vivono centinaia di migliaia di extracomunitari migranti: donne, uomini, bambini, famiglie. Cosa fanno, qual’è la loro relazione con Milano e con la produzione della sua ricchezza? In poche parole, la arricchiscono o la depauperano? E, se volessimo elaborare un benchmarking di indicatori su cui misurare e valutare la capacità cittadina di produrre ricchezza, quale peso dovremmo attribuire ai migranti extracomunitari e assieme, senza alcuna possibilità di disgiungerla, alla politica pubblica di regolazione della loro presenza?

Milano, come tutte le metropoli occidentali, attrae persone lontane che cercano una vita migliore e che sono disposte a pagare un altissimo prezzo per realizzare il proprio sogno, non solo abbandonando terra, famiglia, lingua e tradizioni, ma anche avviandosi su di un percorso di cui conoscono già il prezzo: sfruttamento, carenza di diritti, degrado abitativo e sociale. Un prezzo pesantissimo, che appare tuttavia a loro sostenibile se comparato con la disperazione che si lasciano alle spalle, e soprattutto con il traguardo atteso di una buona sistemazione finale, per sé e soprattutto per i figli. Sono la rappresentazione e la condizione di vita proprie delle prime generazioni di migranti, a noi italiani ben note nelle nostre transizioni ottocentesche e novecentesche, francesi, americane, argentine, australiane, germaniche, belghe.

Il migrante, anche quello che detiene un buon livello culturale, si adatta a quello che trova, non avendo altra scelta. Quello che trova sono le occupazioni, le mansioni, i luoghi, i compensi, lasciati sempre più deserti dall’evoluzione sociale e culturale dei milanesi, dal loro arricchimento. Provate a cercare un’impresa che si occupi di traslochi o di ristrutturazioni edilizie, provate a cercare personale di cucina o per le pulizie, provate a cercare operai per le mansioni più dure e rischiose: lì troverete pressoché unicamente gli extracomunitari migranti. Il migrante del 2010 è il proletario milanese moderno, quando non letteralmente il sottoproletario.

Dietro ogni banchiere, professionista, imprenditore, tecnico o funzionario, troverete una rete di funzioni sociali e produttive sostenuta esclusivamente dai migranti, al punto che la loro presenza è presupposto essenziale per la stessa riproduzione sociale milanese. Cosa fanno questi lavoratori e imprenditori migranti? Creano valore, o creano le condizioni sociali di generazione del valore. Cosa ne deriva loro: una porzione del tutto minoritaria del valore generato e appropriato dalla gigantesca macchina metropolitana milanese, accompagnata da un clima di crescente ostilità e disprezzo.

Questa preziosa funzione sociale e produttiva assieme non è stata finora accompagnata da un investimento pubblico forte e corrispondente al suo valore: si è perlopiù lasciato (il laissez faire di Smith) che il “mercato” e il buon cuore facessero il loro distinto, ma correlato, mestiere. Si è lasciato che il sociale si facesse carico, per come poteva farlo, del tema integrazione, e soprattutto si è permesso che questa operazione avvenisse con pesi e conseguenze del tutto ineguali. Cosa importa del resto alle funzioni produttive e di servizio (banche, imprese, ristorazione..) se, fuori dall’orario di lavoro, il migrante non trova di che vivere decorosamente e che, proprio per questo, debba sovrappopolare contesti periferici fatiscenti e aggiungere degrado al degrado esistente? E cosa importa che il disagio del migrante generi e moltiplichi il disagio dell’italiano residente? Nulla, assolutamente nulla, perché non tocca a loro, quali attori economici, l’occuparsene.

Ma il gioco è truccato: a me, soggetto economico, i benefici di prestazioni a basso prezzo, a voi, soggetti sociali, migranti e italiani, sovraffollamento, degrado e competizione per servizi sempre meno diffusi. In mezzo una pubblica amministrazione che accetta e anzi spinge ideologicamente verso la separazione dell’economico dal sociale. Una separazione che avviene sotto le mentite spoglie del valore salvifico del mercato, e viene santificato dalle ideologie leghiste e liberiste. Questa visione negli ultimi anni ha deturpato la città, ne mortifica tuttora le energie, avvilendo le persone e i luoghi, promuovendo il permanere e l’aggravarsi del disagio sociale, generando infine le condizioni strutturali per una profonda crisi d’identità tra strati vecchi e nuovi della città metropolitana.

Qui il paradigma liberista, à la Smith, dichiara senza veli tutta la sua irrazionalità di fondo, l’incapacità di rappresentare e fornire soluzioni alle contraddizioni della realtà: chi crea ricchezza non ne riceve che una misera quota, la penosa divaricazione delle posizioni occupate nella società dai diversi soggetti che la compongono genera le basi per una crisi sociale e culturale grave e strutturale. A sua volta, la crisi sociale, corrodendo il “contratto sociale”, potrà mettere in discussione lo stesso processo di creazione della Ricchezza. Milano, ha già vissuto tempi di stridente crisi sociale e immigrazione (anni 50 e 60), ma in contesti socio politici diversi: tempi di acceso riformismo sociale e di migrazioni interne di masse comunque sostenute dai diritti soggettivi loro derivanti dall’appartenenza alla comunità nazionale.

La sua Ricchezza allora fu costruita al tempo stesso dagli immigrati meridionali e da politiche di sostegno sociale (si pensi all’edilizia pubblica e al servizio sanitario nazionale). Il carattere della città, per quanto sottoposto a fortissime tensioni, non fu quindi messo in discussione e con questo la sua coesione interna e la sua capacità di continuare a generare valore. Oggi, il clima culturale è opposto e i migranti non hanno diritti di cittadinanza: queste sono le specifiche, cioè dell’oggi e del come, componenti base di una miscela che domani potrà essere esplosiva.

In una visione che integra nel concetto di Ricchezza anche i valori immateriali, sia come valori godibili che come risorse generatrici di sviluppo, si dovrebbe allora riconoscere che Milano esprime un forte e urgente bisogno di un’aggiornata cultura di governo del processo di migrazione. Ma attenzione non di una sfera per così dire separata dell’azione della Polis, ma di una riconsiderazione complessiva delle modalità con cui ridistribuire la sua Ricchezza nel sociale, e quindi anche verso il nuovo sociale.

Una cultura di governo capace di comprendere quanto di specifico, ma al tempo stesso di comune, vi è nei bisogni sociali, che un asilo, una casa, un contratto lavoro, un diritto, un vivere sereno, sono condizione comune di buona cittadinanza, e in quanto tali appartengono, come espressione della Ricchezza della Città, a quanti vi abitano e vi lavorano, indipendentemente dalla loro nazionalità.

 

 

Giuseppe Ucciero



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