5 aprile 2010

DOPO IL BERLUSCA I NARCOS


C’è un convitato di pietra che si aggira nel dibattito politico italiano ed è lo spettro ultraterreno, questa volta non del Commendatore, ma del Cavaliere. Prima delle regionali si era diffusa la pericolosa illusione che Berlusconi (e per taluni addirittura il berlusconismo, che è tutt’altra cosa) fosse defunto o comunque nella sua fase di declino. A partire dal libro di Aldo Schiavone (Schiavone,2009) e dalla linea del giornale “La Repubblica” e poggiando su una serie di altre considerazioni, sia vitalistico-demografiche (la salute e l’età del C.) sia politico-strategiche (le difficoltà interne e la fine del ciclo del pensiero unico) sia congiunturali (la crisi) si erano tutti un po’ convinti (compresi non pochi del PDL), che la fine era vicina. Particolarmente esiziale è stata l’aspettativa che la crisi economica avrebbe favorito l’opposizione: mi ero permesso di cautelare contro questa particolare illusione un anno fa (Martinotti,2009) facendo semplicemente notare che le crisi devastanti producono anche ondate di fascismo, come è avvenuto negli anni trenta del secolo scorso. Le crisi favoriscono l’opposizione solo là dove c’è una opposizione che ha presentato una sua politica alternativa che offre qualche speranza; dove questa opposizione non c’è o non riesce a farsi sentire, e l’agenda la detta chi è al potere, non si vede perché chi è già nell’incertezza di aver perso o di star per perdere il lavoro debba ulteriormente caricarsi di un’ incertezza politica, tanto più se non è un operaio sindacalizzato che ha già imparato, a sue spese, che l’unione fa la forza, ma è un giovane, un precario, un piccolo imprenditore o artigiano o commerciante abituato a contare sulle proprie forze e semmai imbevuto della logica economicistica di questa maggioranza.

Ci era stato insegnato a scuola che per passare da condizioni oggettive (l’an sich) alla presa di coscienza delle cause profonde (il fuer sich) di queste condizioni, ci voleva un bel po’ di lavoro politico, ma i guru attuali sembrano aver perso la sensibilità di questi problemi. Prevale la logica tipica dell’avventismo “è cambiato il vento” ripeteva Bersani con un sorrisetto bene auspicante, “Berlusconi avrà delle sorprese”. Aprendo per caso la radio in occasione di un dibattito post-elettorale a Radio Popolare (mi pare mercoledì 31 pomeriggio) con Aldo Schiavone, il politologo Giorgio Galli e il sociologo Roberto Biorcio ho avuto una forte sensazione di estraniamento, nel senso che vi si discuteva serenamente delle recenti regionali come delle “prime elezioni del post-berlusconismo”: a dire il vero Roberto Biorcio, abituato a trattare i dati, si difendeva, ma a fatica, da questa impostazione. Mi pare che soltanto Di Pietro, dotato di maggior fiuto cavallino degli altri, abbia qualificato l’idea del declino di Berlusconi, cautelando sui pericoli di questo tanto atteso Gotterdammerung. E credo che Di Pietro abbia tutte le ragioni perché se dobbiamo pensare a una Italia post-berlusconiana, dobbiamo inquadrarla nei rischi che si profilano nei prossimi anni non solo per il nostro, ma anche per molti altri paesi.

Intanto diciamo che se usciamo dal delirio post-traumatico, i risultati di queste elezioni sono stati tra i più previsti degli ultimi anni: l’astensionismo era stato annunciato e temuto da entrambe le parti; la vittoria di Vendola era nell’aria, come la sconfitta di De Luca e Loiero; l’avanzata della Lega era data per certa da tutti i sondaggi; così come l’arretramento del PDL e del PD, e l’avanzamento di IDV, ma forse più di quel che si è verificato, mentre che Piemonte e Lazio fossero elezioni altamente competitive era stato detto da tutti. L’unica vera sorpresa è stata Beppe Grillo, ma non è da ieri che si è detto che le persone minimamente colte nelle scienze sociali sanno benissimo che i sondaggi non sono molto utili per cogliere le avanguardie: per chi se lo vuol ricordare rimando a Nuccio Gilli, Come si fa ricerca,(Gilli,1971) letto a suo tempo da migliaia di studenti che oggi sono professori e giornalisti e sondaggisti, ma evidentemente se lo sono dimenticato come i racconti Pavese. Non sono i sondaggisti che devono essere attenti alle avanguardie ma i politici di professione, e se come è scappato detto a Mercedes Bresso, ci si è sorpresi perché si pensava che Grillo non avesse preso neppure un voto, vuol dire che qualcosa non funziona nell’organizzazione elettorale della Bresso e del PD.

Fatto salvo il fumo fatto circolare da stolti e mascalzoni, non è stato neppure sorprendente che la Chiesa sia intervenuta a gamba (le due gambe) tesa, chi si commuove per le furbate è rimasto incantato del trucco da quattro soldi di attaccare gli abortisti con le grancasse e il giorno dopo dare un buffetto ai nemici degli immigrati con flauto dolce, anche se questo fa parte della ipocrisia pretesca che ritroviamo per intero nella immagine popolare e denuncia uno stato di degradazione morale nella Chiesa dei potenti, non facilmente riscontrabile in altre organizzazioni. E solo gli stolti hanno potuto ripetere con incorreggibile e radicata sempliciotteria che la televisione non influenza il voto: difatti il Cavaliere ha potuto tranquillamente tappare la bocca ai suoi critici, accusando per di più la sinistra di avere imposto una legge (par condicio) che richiede il silenzio, e invadendo tutte le bocche televisive del paese come uno tsunami. Credo che il Magic Moment del dibattito su questo tema sia stato quando Velardi, che per mestiere da consulenze ai politici per la loro immagine televisiva, ha dichiarato senza neppure una piega del suo faccino elegante e affilato dalla soleggiatura caprese, che la “televisione non conta”. Faccia abbronzata davvero! Ma allora, dove è la sorpresa? La sorpresa, come sempre è una questione psicologica di gestalt: tutti noi siamo abituati a rimpiangere di non essere stati capaci di prevedere situazioni e comportamenti, avendo avuto a disposizione tutti gli elementi che a posteriori si incastrano nel modo giusto esatto. Vediamo i singoli pezzi.

Dell’astensione è troppo presto per dire qualcosa di sensato. L’astensione è un fenomeno complesso e non può essere trattato in modo grossolano: dobbiamo attendere analisi pensate sui flussi, per capire almeno chi si è spostato dove. Ma almeno possiamo dire che, nel generale aumento dell’astensione in tutte le democrazie occidentali esistono due tipi di astenuti, che per riprendere una distinzione scolastica possiamo classificare come “raffinati parigini” e “gli stupidi ottentotti”. Gli “stupidi ottentotti” sono quelli che non votano per ignoranza, analfabetismo, disinteresse e perifericità al sistema. Nelle tradizionali analisi elettorali questa astensione si correlava con analfabetismo, basso livello di istruzione e quindi donne, sud campagna e tendenzialmente aree di destra e con i voti nulli.

Poi ci sono i “raffinati parigini”: questi sono gli astenuti per troppo impegno e sono quelli che non votano “per protesta”, “per far capire” (alla sinistra in genere) che deve cambiare rotta e così via. Tradizionalmente erano voti bianchi, che hanno correlazioni opposte a quelli dei voti nulli, e si correlano con istruzione elevata, uomini, città, Nord, sinistra. Il raffinato parigino è un qualunquista, anche se pensa di non esserlo, perché pur essendolo, o considerandosi altamente politicizzato, il suo ragionamento è fallace e si basa su una concezione poltronesca della democrazia. L’elettore, per questi “raffinati parigini” è un po’ come lo spettatore televisivo, sta lì seduto sul “divano di seta con la coscienza inquieta” e se la pietanza che gli offrono non lo stimola le sue papille del gusto, continua a bersi il suo scotch con ghiaccio. Non si considera un soggetto attivo, eventualmente critico delle celte della sua parte politica, ma consapevole delle conseguenze del voto o del non voto: lui è blasé, le ha viste tutte e aspetta che gli portino il piatto di suo gradimento, altrimenti non alza le chiappe. Di solito il raffinato astensionista è di sinistra.

 

Vediamo invece alcune altre affermazioni, che sono risuonate alla grande.

“Berlusconi non ha vinto perché il PDL ha perso voti”. Affermazione del tutto fuorviante: per Berlusconi il partito conta fino a un certo punto, morto uno se ne fa un altro. Berlusconi ha vinto queste elezioni giocando come sempre in prima linea e facendo vincere sotto la sua faccia persino candidati di AN, come la Polverini. I voti al PDL erano secondari.

“Berlusconi ha perso e Bossi ha vinto”. E’ una sciocchezza: la Lega ha guadagnato sul e dal PDL, ma Berlusconi e Bossi sono come una barretta bimetallica e, a seconda delle condizioni, si piegano da una parte o dall’altra, ma non si staccano mai. Bossi senza Berlusconi sarebbe rimasto un fenomeno da baraccone pedemontano e Berlusconi senza Bossi avrebbe dovuto inventarselo. La genialità di entrambi è stata, senza ombra di dubbio, l’aver stretto un patto sul piano personale tenendo separati i partiti. Così Bossi è libero di prodursi (sempre meno da quando si sono tutti rimpannucciati con lauti stipendi dello Stato e di sottogoverno) nelle sue studiatissime flatulenze e Berlusconi può cavarsela dicendo che è un birbantello di cui lui non ha responsabilità morale: mentre Berlusconi può continuare a pasteggiare a pizzette, champagne e escort (mi sono sempre stupito che mancassero le ostriche, ma con quelle che si accontentano di un mille a notte forse non sono necessarie) mentre i solidi leghisti continuano con il loro barbera, pane e salame e famiglia tradizionale. Sono come le ali di un aereo che sostengono lo stesso corpo, ma sono flessibili, mentre se ci mettessero la trave di un partito unico destinato ad andare in pezzi alla prima turbolenza.

I seriosi politologi del Corriere si interrogano ponderando se si tratti di borghesia o popolo, tutte categorie di due secoli fa e non capiscono che si tratta di segmenti del perbenismo nostrano, di un ceto, strato, classe non importa, che è diventato ricco mentre “governavano i comunisti” facendo i soldi con svalutazione, lavoro nero ed evasione fiscale. Per questo sono legati, come loro stessi dicono benissimo, da un “idem sentire”, una comune coscienza di una classe in formazione, cui la Chiesa dei potenti offre un potente collante, indifferente al grido di dolore delle donne e degli uomini della Chiesa dei giusti. Se vogliamo, la vera novità, che però non è una novità, ma il consolidamento di una tendenza in atto da un certo tempo, che è molto probabile si consolidi ulteriormente con l’affermarsi della Lega, e cioè l’attrazione della Lega per un elettorato di sinistra costituito da lavoratori dipendenti e autonomi che nella socialdemocrazia rossa avevano trovato supporto e riconoscimento, ma che ora sono minacciati, come del resto buona parte del ceto leghista, dalla crisi e dalla globalità. Per queste persone intimorite e terrorizzate, la Lega ha trovato un perfetto capro espiatorio: gli “immigrati”. Clandestini o no, neri gialli o slavi sono il parafulmine di tutti i terrori che minacciano la “buona vita” di famiglie interamente immerse nella logica di una società dei consumi, ma minacciate ora dal soffio gelido della povertà. Come era successo con gli ebrei, gli immigrati forniscono una spiegazione semplice per tutti i mali. Non è la prima volta e non sarà l’ultima: gli Stati Uniti, pur essendo una società di immigrati ha una lunga traduzione di movimenti xenofobi.

E anche oggi continuando a parlare di “territorio” e di “radicamento” della Lega, si perde di vista il dato di fatto cruciale che la Lega (come il PCI e la DC un tempo) può contare su un numero elevato di persone disponibili a dedicare parte del lavoro politico nel proprio contesto locale motivate da alcune credenze semplici ma forti, sostenute dalle risorse messe a disposizione dal diffuso sottogoverno esclusivo della Lega, ovviamente destinato oggi ad arricchirsi considerevolmente. Cianciare del territorio come di una entità indistinta e genericamente benevola, non fa che nascondere fatti che andrebbero invece guardati con estrema lucidità. Forse passerebbe l’uzzolo di mettersi, in ritardo, a “fare come fa la Lega”, per mettersi invece a “fare qualcosa di diverso dalla Lega”. Non è utopistico, guardare all’esperienza di Pietrasanta, Lecco, Torino, ma anche Venezia, giusto per dare qualche esempio.

Ma soprattutto non facciamoci illusioni con la fine del berlusconismo: se il PDL ha perso, Berlusconi si è portato a casa tre regioni, di cui una, quella del Lazio, di importanza strategica per il softfranquismo che si sta costruendo unificando il perbenismo risentito di ceto medio che sta alla base di entrambe queste forze politiche, l’oscurantismo anti conciliare e laicofobico del Vaticano, sostenuto da autorevoli voci intellettuali come Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia, Vittorio Messori e ahimè, sia pure indirettamente, Giancarlo Bosetti (Bosetti, 2009) con l’immoralità d’alto bordo del consumismo e del cinismo machiavellico (che tanto piace ai realisti come Ostellino o Panebianco) del Berlusconismo puro. Come dice benissimo Giovanni Sartori, Berlusconi non ha alcun problema a pagare qualsiasi prezzo e baciare qualsiasi anello compreso, per sbaglio, quello di Gheddafi (Corriere della Sera, 2 Aprile 2010). Berlusconi vuole una cosa sola, la Presidenza della Repubblica e per arrivarci deve far fuori chiunque minacci le sue ricchezze e la sua posizione, a partire dai magistrati.

In generale che fare? Nel medio periodo, salvo imprevisti per ora non prevedibili, la sinistra cosiddetta riformista è ingabbiata in un sistema elettorale fintamente bipolare, che garantisce per molto tempo a venire, anche dal punto di vista del sistema elettorale, il premio di maggioranza all’altra parte. Lo garantisce per un semplice calcolo aritmetico: per arrivare alla maggioranza tutti i partiti e movimenti fino all’UDC compresa dovrebbero mettersi assieme, ma questo non è possibile perché se si ingloba l’UDC, anche solo come alleanza elettorale e provvisoria, Grillo, Di Pietro e altri gruppi di sinistra se ne vanno, e viceversa. Senza parlare della barriera posta dal Vaticano che, come si è visto a Roma, impedisce la rappresentanza a una grande porzione della cultura laica di sinistra. Ha un bel dire Veltroni che non si deve parlare di “sinistra”, ma di “centro-sinistra” a “vocazione maggioritaria”: stando così le cose la vocazione rimarrà tale. L’illusione di conquistare l’elettorato dell’UDC è irrealistica. Ma la realtà minoritaria è garantita anche in modo profondo perché, anche se (ipotesi di terzo grado ) dovesse raggiungere la maggioranza dei voti, farebbe la fine del Prodi II, perché non ha ancora costruito l’aereo con le ali flessibili, ma ha al più una zattera di botti e tronchi tenuta assieme con gomene fradice.

Quindi, in primo luogo, un PD che voglia in futuro vincere, deve abbandonare il termine di riformista, che non significa più nulla: tanto le riforme le fanno gli altri. In secondo luogo deve puntare a una coalizione di idee, non di partiti: non uso il termine “valori”, ma sono quelli. Nell’area che non accetta il berlusconismo, esistono a disposizione di un partito di sinistra forti idee-guida comuni e condivise sul piano economico, sociale, di sensibilità culturale e civile, che vengono continuamente frammentate dagli interessi di preservazione delle oligarchie interne ai vari gruppi. Se non si trova la concordanza su un “progetto” comune di idee per il domani, nessun accordo funzionerà mai. Infine si deve abbandonare la difesa cieca di un bipartitismo che è sempre più imperfetto anche se in modo contrario a quello di Giorgio Galli (Galli, 1967), nel senso che questa volta il bipolarismo c’è nelle sigle, ma non nella realtà. Volete convincervi? Dove esiste un vero sistema bipolare come in USA, ma anche in Francia, si capisce subito chi ha vinto o perso, sia pure per una manciata di voti. Qui dopo le elezioni hanno sempre vinto tutti.

Nell’immediato, che fare a Milano? Qui la sinistra non è maggioritaria, ma è relativamente più forte che nel resto della regione e la disputa che si è subito aperta tra Lega e Moratti apre una opportunità importante. La rinuncia di Penati a ricandidarsi (atto di cui dobbiamo essergli grati, anche se forse faceva parte del covenant della sua candidatura alla Regione) apre un’altra opportunità, nel senso che obbliga alla ricerca di un nome nuovo. Non sprechiamola con l’imbroglio delle primarie! Le primarie sono un modo per legittimare le scelte degli apparati: qualsiasi candidato scelto dall’apparato del PD con primarie interne perderà. Mi permetto di riportare quello che ho scritto a Majorino martedì 30,alle 15.26 prima che la parola primarie emergesse dalla nebbia della batosta: “Caro Majorino, davvero questa volta la dirigenza del PD non si può più permettere un minimo errore. Però prima delle primarie, che sono comunque una elezione con le sue regole e i suoi vincoli, io proporrei che un gruppo avanzato del PD organizzi, con altre forze, una sorta di Stati Generali della sinistra, con una discussione lunga (anche un paio di giorni) aperta a tutti in cui le varie forze progressiste milanesi si facciano avanti, dicano le loro ragioni, si scazzino apertamente. Poi (ovviamente) i partiti e i gruppi organizzati faranno (presto) le loro scelte ed eventualmente anche le primarie. Facciamo correre un po’ di cavalli in pubblico per vedere come si comportano, non alleviamo i puledri di nascosto nelle stalle per tirarne fuori all’ultimo momento uno, magari balzano e magari spompato. Cercate di non ripercorrere i vecchi riti. Si è visto che non funzionano più G”.

Ribadisco: le primarie non servono a mobilitare l’elettorato, ma solo i militanti. Anche negli Stati Uniti non sono quel quisisana della partecipazione che il provincialismo del mondo politico italiano da per scontato. In molti casi, anzi, servono proprio a limitare il voto ai “registrati”, e poiché spesso queste “registrazioni” sostituiscono il certificato elettorale (che negli USA non è rilasciato dal comune, ma dai singoli partiti) sono, come è noto, il fattore principale della bassa partecipazione al voto, con l’esclusione di nuovi elettori (che spesso sono anche i nuovi arrivati). Spero che Arcipelago si faccia promotore di una campagna contro le primarie del PD, se non sono precedute da una discussione ampia anche con le altre forze e soprattutto con quelli che non hanno votato. Anzi ho preso una decisione, se il PD si ostinerà con questo rito magico delle primarie, non andrò a votare.

 

Guido Martinotti

 

 

Riferimenti

AA.VV. Per un’altra campagna. Riflessioni e proposte sull’agricoltura periurbana, Maggioli, Satarcangelo di Romagna 2009

Robert A.Beauregard, When America Became Suburban, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006

Giancarlo Bosetti, Il fallimento dei laici furiosi, Rizzoli, Milano 2009

Giorgio Galli, Il bipartitismo imperfetto, Il Mulino, Bologna 1967

Gian Antonio Gilli, Come si fa ricerca, Oscar Mondadori, Milano 1971

Nicola Gratteri, Antonio Nicaso, Fratelli di sangue, Mondadori, Milano 2009

Hugues Lagrange, Oberti, Marco, Émeutes urbaines et protestations, une singularité française, Presses de Science Po, Paris 2006 (trad.it. La rivolta delle periferie, Mondari,Milano 2006).

Guido Martinotti, “Gli italiani sono fascisti ma (forse) non lo sanno”, in Renato Treves, Treves: spirito critico e spirito dogmatico, UNIMIB-Angeli, Milano 2009, pp.123-144; «Autant en emporte le vent…Espace et populations dans la métropole de troisième génération» in Belgeo, 2006-4

Giorgio Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati,gli Struzzi Einaudi, Torino 2008.

Aldo Schiavone, L’Italia contesa, Laterza, Roma 2009



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