29 marzo 2010

LA RICCHEZZA DELLA CITTÀ


Tutti credono di sapere che la ricchezza venga misurata con il denaro, e che a sua volta il denaro consenta di acquistare ciò che ci serve e forse quel che ci piace: ma Eta Beta, visto che i dollari di Topolino non gli consentivano di comperare né il canto di un uccellino né l’allegria di una fanciulla, li ritiene inservibili e li getta. E del resto accumuliamo da qualche tempo libri e ricerche ben documentati che sostengono come, oltrepassata la soglia della povertà, più denaro non dia più felicità. Gli stessi libri e altri usciti di recente – La misura dell’anima, per esempio – sottolineano poi come quel poco o tanto di felicità terrena che possiamo sperare sia incrinata dalla percezione della diseguaglianza, e che d’altra parte la percezione della diseguaglianza è a sua volta meno lancinante in comunità ridotte e socialmente omogenee, la cui riconoscibilità è legata anche dallo spazio dove vivono: e per questo oggi in Italia la felicità è maggiore nelle città minori, dove tutti conoscono tutti – compresi gli extracomunitari – e il padrone della fabbrica, quando è in città, gioca a tressette con i suoi operai.

Da mille anni qui in Europa il campo sociale dove percepiamo la diseguaglianza è la civitas, la cittadinanza di una città, e la sfera materiale dove la leggiamo è l’urbs, la consistenza materiale delle sue case e dei suoi temi collettivi. Lì si annida la percezione della diseguaglianza perché, come diceva Serlio nel 1516, i maggiorenti abitano nel centro della città, accanto alle piazze e ai luoghi nobili, e i poveri lontano, vicino alle porte. Ma cosa sono le piazze e i luoghi nobili se non l’esito della volontà estetica della civitas, del suo desiderio di bellezza? Così la bellezza, che ai sostenitori di città perfettamente funzionali sul piano pratico – che poi non lo saranno mai – sembra soltanto una ciliegina è in realtà il legame che tiene insieme la cittadinanza, la sua ricchezza spirituale. Che paradossalmente proprio un assessore di Comunione e Liberazione sembra non aver compreso.

In che cosa consista la bellezza di una città non è cosa da porre in discussione, tot capita tot sententiae, perché tutti da mille anni sanno in Europa che la bellezza di una città consiste nel darsi dovunque i medesimi temi collettivi – cattedrali e palazzi civici, teatri e musei, giardini pubblici e stadi accanto a molti altri – connettendoli in sequenze animate da strade principali fitte di negozi, da strade monumentali con i palazzi dei maggiorenti, da strade trionfali con un fondale cospicuo, da passeggiate, da boulevard, da viali alberati persi nella campagna, sequenze ritmate poi da piazze principali e da piazze del mercato – entrambi simbolo di una democrazia connaturata al mercato -, da piazze monumentali con uno schieramento di edifici tutti eguali, di piazze nazionali con i monumenti ai costruttori della n azione e le sedi delle banche, depositarie della leggenda di una ricchezza per tutti.

Ma la ricchezza per tutti ha senso soltanto se la percezione della diseguaglianza non la trasforma in una sofferenza nel confronto con gli altri, sicché nelle città più grandi occorre che anche nelle più lontane periferie la percezione dell’appartenenza alla medesima sfera simbolica sia affidata a queste consolidate sequenze nelle quali tutti riconoscono la propria appartenenza alla città: chi abiti in fondo a viale Argonne, una passeggiata larga 90 metri come gli Champs Elysées e dominata dalla chiesa dei santi Nereo e Achilleo, non ha certo la percezione di abitare in una periferia che non faccia parte della città. E questo, il riconoscimento della nostra comune appartenenza a un medesimo universo simbolico, costituisce la ricchezza spirituale della città, che rende meno infelici anche quelli che la clamorosa diseguaglianza della civitas rende tali. Ecco, che la ricchezza sia un delicato fatto dello spirito non lo so solo io, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni.

Erano questi gli ultimi versi di una tenera poesia di Eugenio Montale: “qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza, ed è l’odore dei limoni”. Ma i carpini che dovrebbero venire orrendamente piantati nel cuore di Milano non danno profumo, in questa città non ci saranno i lievi odori dei limoni, né altri profumi a intenerirci il cuore: e del resto la sua ricchezza, per fortuna, non ha odore, pecunia non olet.

Questo per dire che la ricchezza non è soltanto quella di Adamo Smith e di Anders Chydenius.

 

Marco Romano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



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