16 marzo 2010

USCENDO DALLA SORMANI: “VENCEREMOS!”


In un fugace intervallo fra le lunghe ore di studio trascorse nella biblioteca Sormani, ho deciso di fare due passi e godere di un raro tepore nella Milano di marzo.

Brevi e fresche mi giungono le note barbaramente pestate su uno strumento da poche lire di una canzone a me anche fin troppo nota. L’imponenza di un cubo grigio che si mescola al cielo che pesa sulla città e quattro accordi ripetuti con violenza da un vecchio beone lercio di esperienze e lotte.

Passa un ragazzo, sulla trentina. Bello, curato, la barba rasata di fresco che quasi emana ancora il dolciastro di una lozione a buon mercato. Porta la divisa da carabiniere. Il vecchio s’interrompe e lo ingiuria. Il ragazzo non se ne cura e sorride malinconico, allora il vecchio se la prende con me esplodendo in una feroce invettiva contro polizia e magistrati. Non aspetta che io possa replicare e riattacca le note del celebre canto partigiano.

Vado a comprare il tabacco, poco più avanti, e ripassando di fronte al vecchio lascio cadere nel suo berretto qualche spicciolo del resto. Lui mi guarda come implorandomi muto di una qualche parola di conforto. Allora abbozzo un sorriso e alzo il pugno chiuso. Lui s’illumina e grida: “Vinceremo!” Vinceremo. Vinceremo, vecchio. O forse abbiamo già perso e un ragazzo come me e un beone come te non riescono, non possono convincersene. “Conto su di te, su voi giovani.” Fai male compagno, fai male. Perché siamo noi i primi a non contare su se stessi. Canta, continua a suonare vecchio bastardo illuso. Ciò in cui crediamo, non arriverà. O forse sì. Tu mi guardi, gioisci del mio pugno chiuso, gioisci come se io ti avessi dato una nuova speranza ma non è così. Sono disperato quanto te. Diceva, gridava il Comandante: “Venceremos, adelante!! O victoria o muerte!”

E il comunismo non c’è più. Vive ancora nell’anima di pochi. Arde negli occhi tuoi, vecchio, e nel mio incosciente cuore di ragazzo. È caduto un muro e Fidel è anziano e stanco. Giustizia, pace, tolleranza, rispetto, libertà. Parole vane, che pulsano nelle vene di due straccioni che vivono nella capitale della moda e che il destino ha unito qui, oggi, di fronte ad un tribunale di architettura fascista. Diceva Gramsci che “l’indifferenza è il peso morto della storia”. Una parola: “morto”. Ricorre continuamente ed io e ti siamo come due vedove che non accettano la morte del loro defunto marito. O meglio, tu vedova io orfano. Orfano di un padre che mi è stato solo narrato. Ma che mi sembra di avere conosciuto, in tutto il suo splendore e rettitudine, raccontato attraverso gli occhi di chi lo conobbe. E mi ostino. Sono nato testardo e mi ostino a credere in un mondo migliore. Un mondo più giusto.

Un mondo di verità e rispetto. Il rispetto vero, sincero, per l’altro. Un senso dello Stato più compiuto, dove le persone pagano le tasse orgogliose di contribuire alla causa comune, all’istruzione per i giovani, all’assistenza per gli anziani, alla sanità per i malati. All’abbattimento dell”io’ e del “mio” e si crei un sentimento comune! Un ascolto in questo silenzio assordante di quelli che Guccini definirebbe: “… nani, ballerine e canzoni.” Una società nuova, basata sull’ordine e la rettitudine morale. Con meno denaro e più ideali, meno prodotti e più qualità, meno interessi e più libertà, meno furbi e più sinceri.

Quello che siamo ora è un arto incancrenito. E come ogni medico farebbe, amputerei. Amputerei una classe politica corrotta e democristiana, amputerei un sistema mafioso che corrode le nostre città, i nostri paesaggi, la nostra società tutta. Amputerei brutalmente i nostri mezzi d’informazione che ci suggeriscono cattivi modelli. Amputerei il razzismo. Fermerei questa emorragia del progresso per riflettere un attimo su dove ci ha condotto, i benefici che ci hanno portato a scapito di tante buone idee e pensieri confluiti in uno sporco canale di scolo.

Amputerei e ricomincerei da capo. Qualche settimana fa guardavo in televisione il programma di Alberto Angela in seconda serata. Descriveva che cosa succederebbe al nostro pianeta se il genere umano scomparisse da un momento con l’altro. Dopo dieci minuti, dopo un giorno, due mesi, dieci, cento, mille anni. Il pianeta si mangerebbe e ingoierebbe ogni singola briciola del nostro creato. Qualsiasi cosa. Nel giro di qualche migliaio di anni, del nostro passaggio non rimarrebbe più assolutamente nulla. Qui. Mi sono stupito,ma di noi rimarrebbe qualcosa, ma non sul pianta Terra. Dove? Sulla Luna. Là non c’è l’atmosfera e se mai qualcuno dovesse raggiungerla troverebbe della nostra civiltà solo una piccola navetta bianca, una bandiera degli Stati Uniti d’America, una macchina fotografica e delle impronte nel terreno. E basta. In tutto il cosmo nessuno saprà mai, se non per quegli oggetti,che noi siamo esistiti. Ricchezza, prestigio, fama. Tutte illusioni che ci creiamo da soli per noi stessi. Nasci, consumi, crepi. E quando non ci sarai più, nulla sarà rimasto di te. Ma se provi a vivere con rettitudine, facendo il bene, avendo dei sani ideali in cui credere, creando un po’ di amore e di forza nell’anima di chi ti circonda, morirai con la consapevolezza di avere dato, di avere condiviso.

E se mai qualcuno dovesse arrivare sulla Luna, non penserà che abbiamo vissuto da cinici, ma che abbiamo lottato, faticato e pianto per migliorare noi e il pianeta su cui viviamo.

Noi, caro vecchio, siamo diversi. Tu hai visto un mondo, un’Italia che io t’invidio. Hai visto i Falcone, i Berlinguer, hai visto il Che, Allende, hai visto il Dr.King e Bob Kennedy, il loro candore squarciato nel rosso fluido del sangue per la Libertà.

Ed io? Cosa vedrò? Sai cosa, vecchio? Dipende da me. E forse un giorno, tornerà a chiamarci con orgoglio Compagni.

 

Giulio Rubinelli

 

 


 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti