16 marzo 2010

BLOCCO AUTO: 60 MILIONI DI CT


Domenica 28 febbraio: ancora una volta la risposta alla compatta e omogenea nube di polveri sottili che avviluppa quasi in permanenza pressoché tutta la Padania è risultata a “pelle di leopardo” ovvero a macchie sparse qua e là. Sarebbe meglio dire “macchiette” se il residuo rispetto verso le istituzioni, in questo caso locali, non imponesse il ritegno che la serietà della situazione richiede. La diagnosi del problema è arcinota: polveri sottili oltre le soglie di sicurezza per un periodo tollerabile annuale già superato a febbraio. E la terapia? Sarebbe ovvio cominciare col rispondere alla domanda: a chi compete? Chi deve fare che cosa?

Sul che cosa fare le ricette si sprecano. A cominciare dalle sentenze sugli sporadici blocchi domenicali (per altro ricolmi di eccezioni e deroghe) della circolazione delle auto. Così come in Italia esistono 60 milioni di CT della nazionale di calcio, così esistono 60 milioni di potenziali detentori della ricetta risolutiva che, intervistati a caso, rispondono (anche per “par condicio”) per circa metà che “non serve a niente” e per l’altra che “occorrerebbero blocchi più frequenti”.

Sul “chi” deve fare e “dove” invece silenzio assoluto. Viene accettato acriticamente che la competenza sia affidata ai comuni, poiché il potere di regolamentare la segnaletica stradale e di comandare la polizia municipale appartiene tradizionalmente ai sindaci, senza considerare che più di recente non solo il traffico automobilistico bensì anche l’aria inquinata si concedono la loro brava “mobilità”, attraversando impunemente i confini amministrativi i quali per altro, almeno nell’ambito della padanissima “città infinita”, sono sempre più difficilmente riconoscibili.

Il risultato, dai contorni comici, è che se durante il blocco annunciato e praticato dal Sindaco di Milano un milanese qualunque volesse raggiungere, poniamo, i laghi prealpini dovrebbe by-passare Sesto S.Giovanni il 20 febbraio (ma non il 31 gennaio: blocco precedente) procedere per la Brianza (oppure evitarla in pari data), seguire a slalom tra altri 10 o 12 Comuni informandosi di volta in volta cos’ha deciso il rispettivo sindaco il giorno prima. Oppure infischiarsene di divieti considerati fasulli. Oppure rinunciare volontariamente per puro e benemerito senso civico. Se per i comuni vige il “fai da te” perché non dovrebbero fare altrettanto i normali cittadini?

E le province? Ovvero le istituzioni naturalmente sovraordinate, se non altro per pertinenza territoriale? (Lasciamo perdere le regioni sotto stress pre-elettorale ove candidati, liste e listini hanno ben altro a cui pensare). Per le province sarebbe un’occasione buona per demistificare la propria, da più parti asserita, inutilità. Invece purtroppo la confermano, limitando il proprio ruolo a offrire un “tavolo” per la rituale riunione dei sindaci messi in allarme dall’annuncio unilaterale del(la) Sindaco con la esse maiuscola, la quale poi neppure si presenta. Ma non è un problema: se si mostrasse il tavolo ospiterebbe Biancaneve e non sette, bensì settantasette nanetti, con risultato scontato. Ebbene questa scena si ripete da ormai 20 anni: da quando si cominciò ad avvertire l’allarme inquinamento atmosferico, e da quando (la legge 142 sull’ordinamento locale risale al 6 giugno 1990) si rinunciò ad attuare la necessaria redistribuzione delle funzioni e delle responsabilità nella dimensione metropolitana, appiattendo la riforma su una cieca assolutizzazione dell’autonomia comunale, secondo il principio egemone che “ciascuno è padrone in casa propria”.

Il risultato è la “pelle di leopardo” di comuni e comunelli, insieme alla pelle di zigrino delle province, tanto inutili quanto prolificate fino a spezzare in due la stessa area metropolitana milanese, ovvero l’unità omogenea sotto il profilo del terrirorio, della mobilità e dell’ambiente, non governata e invece abbandonata all’impotenza di una governance pubblica malferma nonché all’ingordigia di poteri forti e abnormi interessi privati.

 

Valentino Ballabio


 



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