16 marzo 2010

LA STAZIONE CENTRALE


Appunti sul mausoleo assiro-babilonese, situato in fondo a via Vittor Pisani a Milano. Questa storia dura un secolo. Inizia il 15 gennaio del 1906 e si conclude il 14 dicembre del 2008 con la consegna dei lavori dell’ultimo restauro ma molto è ancora da compiere. Bisogna affermare con forza che poche architetture in Italia hanno quella forza evocatrice, già molto elevata nelle stazioni in generale ma che, in questo gigante di marmo, di pietra e di ferro raggiungono la dimensione del mito metropolitano.

Si dice oggi che è la porta di Milano per il viandante che giunge dall’Europa ma molto diverso era il clima e l’idea degli architetti che la immaginarono, quelli che persero il concorso, quelli che vinsero e quanti la modificarono nel corso della progettazione, della realizzazione e dei restauri successivi. Il concorso del 1906 vide la partecipazione delle “migliori matite milanesi” tutte legate dall’afflato classicista ed eclettico del tempo, una sorta d’infatuazione de costruttivista ante-litteram. In quel clima Cantoni vince ma il progetto non piaceva a molti potenti dell’epoca e quindi rimase appeso alle pareti dello studio dell’architetto. Per arrivare ad un passo successivo sono necessari sei anni e l’amministrazione pubblica premiò Ulisse Stacchini. L’architetto fiorentino poco più che quarantenne, dopo essersi laureato a Roma, si era trasferito a Milano per realizzare alcuni negozi ed esercizi commerciali (come il Ristorante Savini), mediando le esperienze della scuola liberty viennese con l’esercizio retorico dell’eclettismo imperante nella nostra città.

Il progetto vincitore è ancora molto lontano dalla posa della pietra che avverrà dopo il 1915, con lavori ovviamente sospesi per la guerra e ripresi con grande lentezza nel ’19, ma sospesi ancora fino al 1925. Dopo la crisi del delitto Matteotti, Mussolini volle trasformare il cantiere di Milano in un segno simbolico di ripresa economica e ovviamente politica, ma solo nel 1931 la Stazione venne inaugurata da Ciano con uno strascico di lavori che furono conclusi solo nel 1935, quando il sessantaquattrenne architetto poté dirsi finalmente soddisfatto del risultato. L’architettura di Stacchini è, francamente, già vecchia quando viene concepita, monumentale al punto da suscitare, successivamente, dubbi nell’establishment fascista, ma all’epoca dell’inaugurazione appare un impressionante mausoleo in pietra d’Aurisina, cui però fa da contraltare la splendida copertura delle pensiline dell’ingegner Fava, bellissima struttura che non riesce a controbilanciare l’estraneità del corpo principale a qualsiasi contesto di riferimento dopo il periodo Assiro-babilonese, o forse egizio.

Il pachiderma inoltre è poco flessibile, poco adatto alle trasformazioni, ma già nel 1942 si discute della necessità di trasformarla.

Con Palanti inizia una lunghissima teoria di progettisti che hanno tentato invano di rendere praticabile e funzionale un edificio che era nato per essere soltanto un monumento di pietra, una scultura immensa capace di significare una precisa idea di città e di società che Stacchini aveva in mente. Provate solo a pensare che cosa veniva realizzato nel periodo della sua inaugurazione, a quante a quali avanguardie esplodevano in Europa e nel mondo. Dunque ereditato il monumento vengono indetti concorsi, le FS cercano autonomamente di rendere agibile attraverso scale mobili i diversi settori dell’edificio e soprattutto si tenta di collegare in qualche maniera lo stile irripetibile della facciata con la piazza e con gli altri edifici che la sovrastano: Grattacielo Pirelli in testa.

Le modifiche, le aggiunte, le trasformazioni funzionali, e gli spazi abbandonati sono enormi, fino al recente tentativo (scellerato) di giungere a una definitiva e contemporanea razionalizzazione. Impresa impossibile perché la stazione non è antica, non è moderna, non è un’opera di riferimento di un periodo e/o di uno stile è solo un’ingombrante eredita, un cassettone kitch regalo della nonna, con cui le generazioni di milanesi imparano a convivere, e con un certo affetto, anche nei loro loft. Ricordiamo il fallimento di un concorso dei ruggenti anni ottanta per una sistemazione generale che porta alla semplice pedonalizzazione della grande piazza per l’opposizione della potente lobby dei taxisti. E infine, oggi, Mario Tamino architetto già attivo nelle collaborazioni con FS, imposta un progetto di re-styling, che già nell’artificio dei render sembra un compromesso che esplicita ulteriormente i problemi, che negli anni sono diventati anche di ordine pubblico, più che un progetto di ristrutturazione funzionale sembra un make-up su un volto troppo vecchio per essere riportato a una giovinezza che non ha mai posseduto.

Ora sarebbe troppo facile dopo la realizzazione dell’ultimo episodio di questa secolare impresa, di quest’anabasi estetica, esplicitarne l’inadeguatezza, l’implicita ammissione d’impossibilità che la “scocca” impone all'”interior design”. Non si avverte il coraggio programmatico che ogni grande progetto comunica. Qualche taglio alle solette, un alleggerimento ai percorsi verticali, ci si ritrova nel “cul de sac” di un dialogo difficile tra contemporaneità male interpretata e vetustà ingombrante. La stazione è centrale tra i progetti che non siamo riusciti a rendere contemporanei.

E’ una miscela di episodi scorretti che imbastiscono un dialogo fatto di urla e di spintoni, con il risultato che l’eclettismo rimane, aggiungendo confusioni morfologiche nuove alle tante originarie.

Non è chiaro il sistema della comunicazione ai viaggiatori, non si percepisce una volontà di costruire una dialettica tra esistente e nuovo spazio pubblico, che toglie identità al monumento ma non costruisce “il luogo nuovo”, ma un “non luogo”, da cui ammirare la facciata definita da Wright, molti decenni fa”la più bella del mondo”: una bellissima quinta teatrale per un’Aida infinita. Un progetto grande più che un grande progetto, fuori scala rispetto alle funzioni, accademico completamente spurio rispetto all’immagine d’avanguardia che la città vuole dare al visitatore che, esattamente in quel luogo “tocca e percepisce” Milano.

Un labirinto poco affascinante reso ancora più lugubre da un progetto, l’ultimo che ha subito le solite italiche interpretazioni e ripensamenti. Non ultime la sostituzione dei direttori dei lavori e altre amenità amministrative. Trecentoventimila persone ogni giorno arrivano in questo “non luogo”e nell’indifferenza dei pendolari e nello sconcerto dei turisti si compie l’amaro destino di una città che è incapace di imporsi una volontà di trasformazione radicale, ma serena, di scegliere con stile l’avanguardia rispetto all’accademia affettuosa dell’incolpevole Stacchini.

Maurizio De Caro



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