2 marzo 2010

Scrivono Vari 01032010


Scrive Giacomo Properzj

Caro direttore, leggo su Arcipelago Milano un curioso articolo di opposizione al trasferimento della città giudiziaria dall’attuale collocazione in pieno centro in una nuova posizione periferica (Porto di Mare). Tu sai come me che i piccoli centri, giustamente, concentrano tutte le loro “funzioni” nel centro urbano dove si arriva rapidamente e si viene a creare quella animazione un po’ medioevale delle nostre belle piazze italiane. Quando però una città, meglio si direbbe nel nostro caso un conglomerato urbano, diventa, spesso in modo incontrollato, com’è successo a Milano, una città di oltre cinque milioni di abitanti, perché tanti sono i residenti seppur divisi improvvidamente in comuni e province, necessita che le “funzioni” non vengano concentrate in una sola parte della città. Poiché, in questo caso, si determinano condizioni di traffico e inquinamento inaccettabili e sconnessioni speculative nel mercato degli immobili e delle aree (e qui sta il punto).

Necessita invece che le “funzioni” vengano disperse nell’area urbana dando luogo alla ben nota soluzione della “città policentrica”. Questa città policentrica è assolutamente necessaria se si vuole costituire la cosiddetta “città metropolitana” e creare condizioni di sviluppo razionali a tutto l’insieme urbano. Portare dunque altrove la città giudiziaria (tribunale, tribunale amministrativo, carceri e codazzo di studi legali) non è solo una buona idea urbanisticamente parlando ma una delle condizioni necessarie per creare la città metropolitana policentrica. Naturalmente a questo disegno si oppongono miserabili interessi corporativi degli avvocati dei giudici dei cancellieri e di quanti, lavorando nel sistema giustizia, si siano sistemati intorno all’attuale tribunale.

Si oppongono poi, in modo più occulto, i titolari degli interessi immobiliari che vedono modificarsi il sistema di mercato delle loro aree che ora al centro hanno prezzi dieci volte superiori a quelli della periferia. E’ anche un problema sociale ma soprattutto economico e urbanistico per cui al centro della città si costruiscono affannosamente sopralzi, si scavano garage mentre nella periferia e nell’hinterland abortiscono iniziative immobiliari più decenti (anche se la decenza non è storicamente una caratteristica degli imprenditori immobiliari milanesi). Non sono obiezioni il fatto che oggi il quartiere del Porto di Mare sia degradato né che intorno ci siano iniziative immobiliari fallite: il quartiere potrà essere rigenerato e le iniziative edilizie, ormai nelle mani delle banche, potranno essere recuperate speriamo con intervento di mano pubblica e non di CL.

Non è un’obiezione che il palazzo di Piacentini venga trasformato in centro commerciale, perché questo può essere impedito trasformandolo in un grande museo o altra iniziativa culturale, tenuto conto tra l’altro che a due passi la biblioteca Sormani scoppia e non ha quasi più spazio.
So bene che la battaglia contro le corporazioni e gli interessi immobiliari, a Milano, da almeno sessant’anni è perduta ma è importante denunciarla non tanto per combattere l’iniziativa di magistrati che spinti probabilmente da mogli insofferenti che non vogliono lasciare il centro e il tè delle amiche si prestano a battaglie sbagliate, quanto perché gruppi di architetti con speranze clientelari (i tempi sono assai duri per i liberi professionisti) si sono buttati in questa battaglia centripeta che non ha neanche un argomento a favore.

Scrive Gregorio Praderio

Non condivido l’intervento di Piero Cafiero sul n. 7 di Arcipelago sulle vicende urbanistiche milanesi, anzi lo trovo abbastanza superficiale e disinformato. Non è vero che nei piani regolatori precedenti “non si trova uno straccio d’idea” sulla città. Il Piano Beruto (che è un buon piano urbanistico, aggiornato alla cultura dell’epoca) ha prodotto parti di città ordinate e civili, e il suo modello europeo e parigino è abbastanza evidente; lo stesso si può dire del Piano Pavia-Masera (basti vedere la minore qualità delle parti costruirte all’esterno dell’allora perimetro amministrativo).

Anche i piani successivi sono portatori d’idee, magari non condivisibili, o superate o magari attuate solo in parte; il piano vigente ad esempio ha idee come il parco agricolo di cintura, il recupero dei nuclei storici periferici e una volontà di mantenimento di una base economica e produttiva che a oggi, ripeto, si può ritenere superata o non condivisibile (e comunque andava aggiornata prima), ma che non è “mancanza d’idee”. Non è vero poi che “prima del PGT, gli strumenti urbanistici meneghini non venivano aggiornati da più di mezzo secolo”: la variante generale del ’76-’80 è notoriamente un piano del tutto diverso da quello del ’53. Non è vero neanche che il Comune di Milano abbia accettato “senza fiatare” i risultati del concorso indetto dalla Pirelli (passano diversi anni, i numeri sono diversi, ecc.). Insomma, si potrebbe continuare a lungo.

Ma il problema sono le conclusioni a cui si giunge sulla base di tali premesse disinformate. “Non è un dramma” se il PGT dà il colpo di grazia all’urbanistica milanese “perché tanto nel dramma viviamo dall’Ottocento” (e non è vero). “La città va avanti da sola” (senza programmazione di strade e infrastrutture?). Mi sembrano considerazioni un po’ qualunquiste. Certo la pianificazione urbanistica milanese non brilla per qualità ed efficienza, ma non bisogna dimenticare il famoso detto secondo cui “al peggio non c’è mai fine”. Anche una cattiva pianificazione può diventare pessima, senza un contributo di idee, valutazioni, proposte.

Per cui mi sembra giusta l’attuale attenzione prestata alla proposta di PGT al fine di migliorarlo.



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