22 febbraio 2010

PGT. IL DE PROFUNDIS DELL’URBANISTICA MILANESE


O, parafrasando Woody Allen, l’urbanistica è morta e anch’io oggi non mi sento molto bene.

Non giriamoci intorno. Ha senso stare a discutere del PGT che si cerca faticosamente di fare approvare a Milano? È necessario analizzarlo, radiografarlo e criticarlo in ogni suo aspetto?

Io stesso ho più volte scritto in modo critico sull’argomento. Ma ora penso che forse non ne valeva la pena.

Perché questo PGT, in ossequio alla legge regionale 12/2005, è un “non piano” che sancisce in modo legale e pulito la fine dell’urbanistica intesa come disciplina atta a indagare e governare le trasformazioni urbane e territoriali. Che senso ha un piano, che nella sua parte prescrittiva (quella che ha effetto sul regime giuridico dei suoli), chiamata “Piano delle Regole”, è sempre modificabile e non ha scadenza? In questo modo si riduce il governo del territorio a una trattativa (chiamatela pure concertazione o convenzione, se volete) diretta tra l’attore privato e l’assessore all’urbanistica del momento.

Per spiegarla ai non addetti ai lavori, mi si passi questo paragone. Pensate a una legge (il piano in sé è una specie di legge) che sia però sempre modificabile, senza i dovuti passaggi parlamentari. Basta andare da chi ha promulgato quella legge e accordarsi per una variazione della stessa. Si paga (si chiamano oneri di urbanizzazione) e si ottiene ciò che si vuole. Ovviamente sto semplificando. Ma non troppo.

Nella migliore tradizione dei funerali più solenni, in cui si pronuncia l’elogio del caro estinto, cerchiamo di definire meglio cos’era e cos’è l’urbanistica che ci accingiamo a seppellire.

La legge del ’42 afferma che l’urbanistica è una “attività che concerne l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”.

Giovanni Astengo, il padre dell’urbanistica scientifica, nel 1966 ci dice che è “la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e l’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale”. Gli risponde Ludovico Quaroni nel ’69: “disciplina che studia il fenomeno urbano nella sua complessa interezza, onde fornire su di esso dati conoscitivi interessanti, i singoli suoi aspetti e le reciproche loro interrelazioni, perché possano eventualmente venire utilizzati per meglio orientare le molte azioni di carattere politico, legislativo, amministrativo e tecnico che continuamente vengono a modificare la realtà di un territorio”. Ai giorni nostri possiamo citare Patrizia Gabellini, attuale direttore del DIAP al Politecnico di Milano: “sapere pratico applicato al progetto di trasformazione di uno specifico territorio urbanizzato”.

Va anche detto che l’urbanistica del PRG e dello zoning a Milano rappresenta un periodo breve nella storia della città. I primi piani regolatori, pur fregiandosi di questo nome, in realtà erano dei piani di sviluppo edilizio, come il Piano Beruto del 1884/86, che disegnava l’espansione della città nelle aree agricole al di fuori della cerchia dei bastioni. Alla stessa tipologia appartengono il Piano Pavia-Masera del 1910 e il Piano Albertini del 1934. Il primo vero PRG è quello del 1953, con le sue norme tecniche e la zonizzazione, con i suoi retini colorati e gli indici fondiari, diretta conseguenza della legge urbanistica nazionale del ’42.

Ed ora, nel 2010, siamo al cospetto del PGT.

Senza voler tediare troppo chi legge, è giusto ricordare che, prima del suddetto PGT, gli strumenti urbanistici meneghini non venivano aggiornati da più di mezzo secolo. PRG (quello del ’53 e la successiva variante generale del ’76) con più di 300 varianti puntuali sono il sintomo più evidente di mali profondi: l’incapacità di dare risposte chiare alle esigenze della cittadinanza, ma anche la presa d’atto dell’inadeguatezza delle varie amministrazioni comunali (di qualunque orientamento e colore) a guidare e indirizzare le trasformazioni urbane che dal secondo dopoguerra hanno interessato il capoluogo lombardo. Ci sono state di volta in volta altre priorità (la ricostruzione, il boom economico, tangentopoli, etc.), ma mi sembra di non dire un’eresia se affermo che nessuna giunta dal dopoguerra a oggi (ma forse anche prima) abbia offerto uno straccio d’idea su cosa dovesse diventare Milano, attraverso lo strumento urbanistico preposto a formalizzare queste idee, il Piano Regolatore Generale. Si è vivacchiato attraverso troppe varianti, sia fatte per necessità, sia per accontentare il particulare di qualcuno. Qui potremmo aprire un lungo excursus sul tema degli intrecci tra l’amministrazione della cosa pubblica e gli interessi dei privati dall’800 ai giorni nostri, ma non voglio far scappare quei quattro lettori che hanno resistito sin qui. Cito un caso esemplare. Giovanni Battista Pirelli, fondatore nel 1872 dell’omonima società, era un autorevole membro del Consiglio Comunale di Milano, nonché relatore del Piano Regolatore del 1886 (il Piano Beruto), in cui incidentalmente si decidevano anche le aree da destinare a industria.

A proposito della Pirelli non si può non segnalare la vicenda della Bicocca, il primo grande progetto urbano realizzato a Milano sul finire del secolo scorso. In quel caso è la proprietà che decide tutto, organizza un concorso internazionale e mette il comune di fronte al fatto compiuto. E il Comune approva una variante al PRG nel 1989 che sposa in toto l’esito di quel concorso, senza fiatare.

E la cosa si ripete sia con la scelta di decentrale l’Università Statale in Bicocca e non a Porta Vittoria, come voleva il comune, sia con l’assai nota vicenda del Teatro degli Arcimboldi, una sorta di onere di urbanizzazione non richiesto.

Emblematico, no?

Se quello che ho scritto vi convince, allora capite che forse, anche se l’urbanistica meneghina sta morendo e il PGT le darà il colpo di grazia, non è un dramma. Perché nel dramma ci viviamo dall’ottocento. Perché questo rapporto tra interessi privati e pubblica amministrazione forse è geneticamente scritto nel DNA milanese. E perché forse ora che tutto si va azzerando, si offre l’occasione di ripensare la questione urbanistica dalle fondamenta. Tanto la città va avanti da sola, nel bene e nel male indifferente alle chiacchiere, alla politica e ai comitati di quartiere.

Già, la città va avanti, perché sono altri che la costruiscono e la trasformano (e il risultato finale non mi dispiace del tutto), mentre noi stiamo fermi a parlarci addosso.

E se provassimo a toglierci i paraocchi e cercassimo di fare qualche riflessione costruttiva?

 

Pietro Cafiero

 

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti