22 febbraio 2019

PIERO BOTTONI ARCHITETTO

Una figura oggi sotto i riflettori


La vicenda del Monte Stella ha rivelato un’impressionante ignoranza della storia del’architettura milanese e nazionale contemporanea entro la quale la figura di Piero Bottoni risalta per la decisione ad aprire la strada verso nuove dignità dell’architettura, dell’urbanistica e del design.

190222_Meneghetti-02Quando a marzo del 1973 Piero Bottoni morì in un ospedale pubblico milanese dov’era ricoverato per un banale intervento alla prostata (semplice ingrossamento senza il minimo indizio tumorale) rimasi di stucco. Non aveva ancora compiuto i settant’anni ed era pieno di vitalità e di entusiasmo creativo. Durante l’ultima visita mi aveva mostrato degli schizzi, anzi chiari disegni realizzati coricato con la schiena rialzata da due o tre cuscini: un progetto di letto ospedaliero modificabile secondo le esigenze del malato. Anticipava il tipo di letto tecnologico che si diffonderà nei migliori istituti, un semplice pulsante elettrico comanderà diverse posture del corpo umano. Piero era talmente contento che non faceva caso alla piaga da decubito che stava peggiorando (anche per questo fenomeno proponeva altro tipo di letto!). Una cura insufficiente, una preparazione inadeguata degli infermieri, insomma un’organizzazione antiquata provocò l’infezione della lacerazione: seguita da una gravissima forma di setticemia lo porterà alla morte.

Ricordo di un uomo. Sub radicibus montis: minime

Pur contrapponendosi al Novecento milanese (unico architetto del Movimento moderno critico verso la Ca’ Brütta di Colonnese e Muzio per aver comportato la distruzione di un bel giardino), Bottoni non si era sottratto al compito di propagandare i principi della «Nuova architettura». Ancora nel 1954 in Antologia di edifici moderni in Milano. Guida compilata da Piero Bottoni[1] gli esempi razionalisti e soprattutto, anche a causa di mera presenza quantitativa, gli edifici neo-razionalisti dominano il quadro dal dopoguerra. Tuttavia la revisione dei principi e della maniera avviene ben prima del totale coinvolgimento nelle questioni che l’eredità storica, territorio – città – singoli manufatti – arredamento impone di affrontare. Valga, come un’icona, il complesso lavoro nella tenuta Muggia a Imola, in particolare la villa del 1936-1938 [2]: passato/presente, natura/architettura sono i due binomi su cui si incardinerà la futura ricerca, libera dal funzionalismo e dal razionalismo schematico. (In parentesi: le architetture di Bottoni degli anni Trenta classificabili nel razionalismo sono altro che fredde applicazioni di canoni rigidi).

Bottoni affonda le radici dell’unità urbanistica-architettura nell’anteguerra specialmente attraverso la critica all’eclettismo che si dispiegherà in pieno lungo il successivo arco degli impegni: professionali, politico-amministrativi, d’insegnamento universitario. Se «l’ideale cui […] tendere […] è l’equilibrio del binomio urbanistica-architettura”, senza il quale nessun luogo può dirsi umanamente abitabile, una delle condizioni è che l’urbanistica sia arte, oltre che scienza[3].

Bottoni era stato uno dei più accesi propugnatori dei principi fissati al IV Ciam (Congresso Internazionale di architettura moderna). Ma, come già accennava alla necessità di personalizzare la bellezza degli oggetti, e lo fece in alcuni arredamenti realizzati in quegli anni per famiglie che conosceva e in circa settecento progetti di mobili singoli, così intravedeva che l’urbanistica, obbligata ad aprirsi alle scienze sociali, proprio per questo, interpreto, poteva ricollegarsi alle antiche origini quando la bellezza era connaturata agli spazi sociali della città, sebbene sappiamo come la città fosse divisa duramente in classi e schiavista.

Bottoni e gli altri migliori architetti della sua generazione operarono secondo una concezione globale e unitaria del problema degli spazi e dei manufatti: «dal cucchiaio alla città» (E.N. Rogers, 1952) e oltre. Lo stesso accadde alla nostra generazione. Secondo la critica di attuali cosiddetti specialisti, in particolare nel campo urbanistico, quello fu un errore: eccessivo affastellamento di oggetti diversi e, dunque, presunzione dei progettisti. Alla luce, debolissima, dei risultati provenienti da radicali separatezze, anzi nell’attuale oscurità culturale dico: ben venne questa ricerca di unificazione, questa capacità di misurarsi con competenza a diversi livelli di spazi e oggetti. Lo dimostrano gli esiti, anche e principalmente in Piero Bottoni. Del resto, è forse un bene che gli urbanisti appunto specialisti (ma di cosa?) non sappiano nulla di architettura? di arte? di poetica? Che sprezzino o ignorino la questione della bellezza ad ogni dimensione dello spazio: la città, la campagna, la casa, gli spazi di una sperata socializzazione, il tuo spazio personale?

La questione delle abitazioni per il popolo è studiata da Bottoni già prima della guerra e approderà alla pubblicazione con l’editore Görlich di La casa a chi lavora, una assicurazione sociale per la casa sulla base di precedenti stesure. Ma, a lato del noto programma, l’architetto urbanista designer si è rivolto fin dagli anni Trenta alla casa in concreto, «una buona abitazione» (parafrasando Bruno Taut). È una casa decisamente razionale che occorre fornire quale base dell’abitazione di massa. Ma essa va realizzata comprendendo che le singole persone, nella massa, sono… tali e vivono, anche se male riguardo all’alloggio in sé, in luoghi determinati. Semmai è essenziale dialogare con i lavoratori almeno attraverso il contatto con esempi reali e anche, in connessione a questa opportunità, con una organizzazione rivolta a educare, in presenza di un possibile modo di abitare (vivere) alternativo. Per circa vent’anni Bottoni insiste su questo progetto sociale, fino a pervenire nel 1954 al progetto di una scuola comunale al QT8, appunto «per l’educazione al vivere nella casa». Tale imparare ad abitare riguarda specialmente l’alloggio, l’interno arredato. A questo proposito: all’Archivio Bottoni è conservato un film, Una giornata nella casa popolare, girato nel 1933, sceneggiatura e regia Piero Bottoni, operatore Ubaldo Magnaghi. Un documento storico di rara efficacia:

«Presentato ufficialmente a Milano al convegno lombardo sulla casa popolare del 1936, il filmato mette in scena, con attori improvvisati, una giornata tipica di una famiglia operaia ambientata nel Gruppo di elementi di case popolari progettato da Bottoni e Griffini per la V Triennale di Milano»

Grazie a esperienze professionali d’anteguerra imperniate sul confronto fra architettura antica e architettura moderna, fra storia e modernità (esempi: Villa Muggia a Imola, Cascina Canova a Valera Fratta, Villa Bedarida a Livorno, ed anche, a scala di territorio vasto, il progetto con Belgioioso per la piana del Breuil), Piero Bottoni si dedicherà ben presto al compito relativi alla difesa e al rinnovo della città storica e se ne farà fervido propagandista con gli scritti e i discorsi, e con le opere (i progetti per Siena, Mantova, San Geminiano; i lavori a Ferrara…). La città antica ci insegna un modo di abitare in uno spazio appropriato all’uomo. Essa, con le sue strade e le sue piazze è tanto vera quanto è astratta la città dello zoning, è amica quanto è nemica la città dello sfruttamento a-umano degli spazi. Le città della nostra storia ci tramandano un altro messaggio, avverso alle separazioni, alle divisioni, come quella fra città e campagna: quando chiede un «sistema equilibrato» Bottoni pare aver recepito, fra l’altro, le analisi e le proposte di William Morris, per non nominare l’ormai bandito, nei consessi «buoni», Friedrich Engels.

E’ una primazia di Bottoni, infine, la preoccupazione circa il destino dei centri minori o di certe parti urbane che ricordiamo, «per quell’aria di città», data proprio dalla dignità e coerenza dell’architettura minore piuttosto che a singoli monumenti eccezionali.

Il principio di Le Corbusier, «il faut tuer la rue corridor» non poteva trovare piena condivisione in Bottoni, che pur in grandi costruzioni come il palazzo INA in corso Sempione appare schiettamente lecorbusieriano, se così posso dire. Se si ama la città storica non si può rinunciare a una componente essenziale della vitalità/vivacità urbana, appunto la strada. Sicché Bottoni tenta un modello a cavaliere fra passato e presente. Da un lato la insistente citazione di corso Buenos Aires (la «strada vitale») con, vicine, le residenziali e alberate vie Morgagni e Marcello; dall’altro la moderna interpretazione attraverso sia i progetti urbanistici per i nuovi quartieri di Mantova, Sesto S. G. e per il Gallaratese (corpi bassi sui lati per ogni genere di servizi e le case poste trasversalmente o collocate in prossimi spazi-giardino), sia realizzazioni architettoniche (a Milano, i complessi di corso Buenos Aires e corso Sempione).

E’ però indispensabile in ogni riassicurazione di vita alla città, vecchia con le vecchie vie, nuova con la nuova «strada vitale», applicare un vecchio programma di Bottoni precorritore dei tempi attuali che designa l’incompatibilità dell’automobile con la città del risiedere, vivere bene, anche in quanto responsabile di un’espansione distruttrice della campagna.

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Sul fondamento dell’unità urbanistica-architettura, dell’unità città-campagna prende vigore l’opposizione alle scissioni, divenienti subito separatezze estranee, nel pensiero e nel progetto. Chi di noi ha sempre sostenuto che non «viene» prima l’urbanistica e poi «viene» l’architettura o, viceversa, che l’architettura non può godere di una comoda indipendenza né di un’autoritaria priorità, sottoscrive l’assunto bottoniano relativo all’urbanistica: esiste un solo problema generale della città e del suo territorio; nella pratica di progetto il piano regolatore non deve precedere lo studio e il piano per il centro storico.

Può riproporsi a questo punto la questione dello specialismo che definisco radicale. La crisi attuale dell’urbanistica professionistica e pubblica, anzi la sua sparizione come pratica significativa e vincente, avendola gettata nelle mani esclusive di imprenditori e finanzieri, ma anche la crisi di un’architettura solipsista, incapace di dialogare perché se ne frega dei problemi sociali derivano dalla mancanza di un retroterra culturale vasto teso atto a capire la complessità unitaria (si perdonerà l’ossimoro) del progetto per abitare luoghi vivibili e riconoscibili e, prima, dei fenomeni tremendi d’oggi che impediscono l’humanitas del risiedere, la vita in armonia fra il «personale» (psicologia) e il «sociale» (sociologia).

La risposta di Bottoni a cosa dev’essere l’urbanistica è ancora valida. L’arte urbanistica non è una tecnica astorica, il piano non è un fatto personale dei progettisti; né serve una politica di standard in astratto. Soprattutto necessita il colloquio, il confronto: in questo senso agì l’VIII Triennale, voluta da Bottoni e dalla cultura internazionale molto aperta al contributo degli architetti e dei cittadini. La sperimentazione stessa del e nel quartiere QT8 ci ha tramandato tale vocazione al dialogo e nello stesso tempo all’unità nell’operare: il QT8 perseguiva nuovi risultati nella sperimentazione architettonica orientata ad ogni verifica e suggerimento entro un progetto urbanistico effettivamente centrato sull’interrelazione: il quartiere, organico alla città; il parco, con la grande collina, parte intima del quartiere ma anche dotazione dell’intera metropoli; le case, differenti e coerenti, inserite in un molteplice spazio sociale.

Bottoni ripropose nell’insegnamento i medesimi principi che avevano caratterizzato l’impegno professionale: la critica negativa dell’architettura «divistica» diventava rifiuto a rappresentarsi come docente divo, depositario di scienza indiscussa. Il suo modo di rapportarsi sia con gli studenti che con i collaboratori fece coniare la definizione «Bottoni organizzatore di cultura». Attenzione però. Risulta dai suoi scritti (e dal ricordo) che a un sistema pedagogico fondato sulla dialettica (nel senso di arte del ragionare) circa i problemi spaziali della città e del territorio in connessione ai problemi sociali doveva accompagnarsi l’assoluta necessità di progettare nella scuola; o in ogni modo discutere di organizzazione degli spazi e di progetto alle scale coerenti. D’altronde agli infiniti aspetti della vita reale a Milano erano state legate per otto anni le sue memorabili battaglie in Consiglio comunale: il loro riflesso balenava nella scuola.

Bottoni (anche pittore e scultore) era poeta dei sentimenti improntati ai valori della natura, degli spazi aperti, vasti: dalle memorie dell’infanzia un desiderio di libertà, un impulso anche a contraddire, se così posso esprimermi, l’amore per la città con il retaggio naturale. La campagna, i monti, le colline, il mare, la luce, il cielo. Ecco: il Monte Stella, una cosa reale, un’architettura di natura inventata per Milano, ma anche una metafora che rappresenta il riscatto dal degrado urbano. Ecco: il Diritto al cielo, il progetto dell’ultimo anno di vita, sulle basi di precedenti prove architettoniche: un’ingegnosità tecnica e compositiva al fine di raggiungere ciò che la città interna quasi sempre ci nega: la visione ampia del cielo. Così Bottoni, con la sua vena poetica e con il suo radicamento vitale, ci ripeteva la sfida: le nostre discipline, impiegate secondo la loro natura più benevola apparterrebbero alla poesia, all’arte. Non fu così dalla fine del secolo breve (1980!) ai quasi due decenni del terzo millennio.

Bertolt Brecht con uno dei suoi più intensi messaggi didattici ci spiegò che tutte le arti debbono contribuire all’arte più grande di tutte le altre: l’arte di vivere. Ma oggi, qui, Milano febbraio 2019, vigendo la devastazione di una grande opera di naturalismo architettonico e urbanistico come l’ineguagliabile Monte Stella di Piero Bottoni, è di morte che dobbiamo parlare, di uccisione dell’arte e della vita.

Lodovico Meneghetti

1.- Antologia di edifici moderni in Milano. Guida compilata da Piero Bottoni, editoriale Domus, Milano1954 – Edizione originale // Reprint 1990, con Postfazione aggiunta di Lodovico Meneghetti // Nuova edizione Il Libraccio – Lampi di Stampa, 2010.
2.- Graziella Tonon la cita in immagini nella raccolta a sua cura Bottoni. Una nuova antichissima bellezza. Scritti editi e inediti 1927-1973, Laterza & Figli, Bari 1995.
3.- Graziella Bottoni, ivi, p. 41



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  1. NadirComplimenti davvero un articolo interessante
    3 marzo 2019 • 08:31Rispondi
  2. Claudio StracqualursiLa lucidità visionaria dell'arch Meneghetti ci consegna un obbligo morale e professionale: la pianificazione urbana non può essere consegnata nelle mani di speculatori e miseri burocrati. La conoscenza la sensibilta e l'interdisciplinalita, e non solo, strumenti indispensabili.
    14 gennaio 2020 • 14:29Rispondi
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