15 febbraio 2010

ART. 18 E DINTORNI: CONSIDERAZIONI DI UN NON GIUSLAVORISTA


Seppure è passato il momento di massima contestazione all’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, tuttavia la sua messa in discussione, anche radicale non è superata, anzi. Paradossalmente, le contestazioni più rilevanti contro l’art 18 sembrano pervenire da giuslavoristi del campo progressista, e tra i più noti e generalmente apprezzati. A queste posizioni desidero riservare alcune considerazioni di natura logica – fattuale, non specificamente attinenti cioè alla disciplina che se ne occupa istituzionalmente: insomma le considerazioni di un non giuslavorista.

Per venire subito alla questione, ricordo che s’indica nel grado di tutela accordata dall’art 18 dello Statuto dei Lavoratori al rapporto di lavoro a tempo indeterminato nelle imprese sopra i 15 dipendenti, la causa principale della distorsione del mercato del lavoro italiano, l’irrigidimento della struttura produttiva e lo svantaggio dei lavoratori non beneficiari dell’applicazione dell’art 18.

Il divieto di licenziamento in assenza di giusta causa, con obbligo di reintegro sul posti di lavoro del lavoratore, impedirebbe il funzionamento fluido del mercato del lavoro, bloccando le uscite e per questo anche gli accessi alle imprese, ostacolando così la stessa stabilizzazione e tutela dei lavoratori “precari”. In breve, e si perdoni la sintesi troppo secca, l’egoismo e il corporativismo dei lavoratori delle imprese sopra i 15 dipendenti sarebbero all’origine d’inefficienza produttiva e d’ineguaglianza sociale.

E’ un’accusa grave, che richiede una meditata responsabilità nella sua formulazione, ma anche un’attenzione senza pregiudizi nella sua valutazione, privilegiando la ricerca dei fatti sul campo come criterio di fondo. Esaminando il mondo dell’impresa privata, si deve subito rilevare che, se le imprese sotto i 15 dipendenti sono già oggi nella vantaggiosa posizione di poter licenziare ad nutum, allora ci si aspetterebbe di rintracciare in questo specifico segmento produttivo una percentuale di lavoro atipico bassa o addirittura nulla.

Non è così. In linea di fatto, il ricorso alle forme di rapporto atipico è diffuso tanto nelle imprese regolate dall’art. 18 che in quelle ad esso sottratte; anzi, specie nei servizi, vi è più ricorso a queste forme nelle imprese sotto soglia che sopra soglia. Se si resta su di un terreno logico, dovremmo allora dedurre che non vi è relazione necessaria tra grado di tutela accordata ex art. 18 e ricorso al lavoro atipico. Si dice poi, che la rigidità della tutela accordata ex art. 18 determini il nanismo delle imprese, “condannate” a restare sotto soglia per la preoccupazione che l’art 18 arrecherebbe all’imprenditore. Qui la distorsione della memoria appare eclatante. Al momento dell’approvazione dello Statuto dei Lavoratori (1970), le imprese sotto i 15 dipendenti erano già la stragrande maggioranza delle imprese italiane e quindi l’art 18 non ha avuto ruolo essenziale nella promozione del nanismo d’impresa, determinato semmai dall’evoluzione dei fattori produttivi, in primis le nuove tecnologie, o da gravi deficienze delle politiche industriali. Infine, l’art 18 limiterebbe la flessibilità organizzativa, essenziale per il mantenimento e lo sviluppo della competitività d’impresa, e qui non si comprende la natura dell’argomento.

Il tema della flessibilità è tipicamente il tema delle ristrutturazioni d’impresa, processi collettivi che coinvolgono intere popolazioni di lavoratori e non è quindi materia di art. 18, che regola invece il licenziamento individuale. Come si sa, in Italia il tema dei licenziamenti collettivi è regolato da specifiche normative e accordi con cui si dà modo all’imprenditore di procedere alla soluzione prescelta, sia in dialogo con il sindacato che in avversione: dalla mobilità alla cassa integrazione, la flessibilità è consentita. Ma in ogni caso, che c’entra qui l’art. 18?

E infine guardando ai Paesi europei, dove non si trova traccia di istituti comparabili con l’art. 18, ci si imbatte sempre in un’area consistente di lavoro atipico, nelle variegate forme di lavoro interinale, a tempo determinato o quant’altro. Dunque anche in questo caso è difficile sostenere l’esistenza di una relazione causa – effetto tra il grado di tutela del posto di lavoro a tempo indeterminato (che non esiste in forme simili a quello italiano) e la diffusione del lavoro atipico.

Se osserviamo infine il mondo della pubblica amministrazione, certamente qui il rapporto di lavoro è tutelato in sommo grado, ma se si dovesse identificare il maggior ostacolo alla flessibilità ed il maggior impulso allo sviluppo del lavoro atipico, lo dovremmo cercare nella forte rigidità delle mansioni e dell’organizzazione pretesa dalle organizzazioni sindacali. Vi è poi l’argomento dei vincoli di bilancio alle amministrazioni dello Stato e degli EE.LL.: se l’organico non può essere strutturalmente ampliato o semplicemente mantenuto, allora si deve ricorrere necessariamente al lavoro atipico. Ma se queste sono le principali cause della diffusione del lavoro atipico nel mondo della Pubblica Amministrazione, resta da chiedersi cosa c’entri la disciplina dell’art. 18 nel generarlo.

Ma allora, se così stanno le cose in linea di fatto e di logica, dove consiste effettivamente la questione? Quale relazione possiamo effettivamente rintracciare tra il grado di maggior tutela accordato dall’art. 18 ai lavoratori delle imprese medio grandi e la diffusione del lavoro atipico nell’intera sfera del lavoro, sia essa pubblica o privata, nella microimpresa o sopra soglia?

E soprattutto a cosa si deve allora l’ampio ricorso al lavoro atipico in Italia e soprattutto il disagio che ne deriva, assai più che in altri Paesi d’Europa?

Qui è indispensabile la Memoria, cosa di cui peraltro i lavoratori appaiono sufficientemente forniti.

Si deve ricordare che il “lavoro atipico” è sorto in Italia come gamma di istituti normativi volti alla riduzione del tasso di disoccupazione, specie quella giovanile o femminile: il lavoro atipico è stato preceduto, ed è tuttora accompagnato, da ampi fenomeni di lavoro irregolare.

In realtà, il tema vero del lavoro atipico e della sua diffusione in Italia non è relativo alla flessibilità del rapporto di lavoro, e quindi nell’art. 18, ma nel costo del lavoro per l’impresa, e qui si ritrova la vera ragione del ricorso a esso. Le imprese, grandi e piccole, ricorrono al lavoro atipico principalmente perché è un lavoro più conveniente economicamente e la cosa è incongrua se si pensa che un lavoro flessibile dovrebbe costare di più e non di meno: lo svantaggio derivante dalla ridotta, o nulla, durata del rapporto andrebbe compensato con il suo maggior costo per l’impresa che se ne avvantaggia, così come effettivamente accade per la regolazione del lavoro interinale. Ma a parte questo caso “virtuoso”, in Italia succede invece il contrario. Se così stanno le cose, occorre avere il coraggio per chiamare le cose con il loro nome e non si chiami flessibile quello che semplicemente è lavoro sottopagato. E allora non s’invochi l’art 18 per giustificare questa pratica, dato che qui il tema non è la flessibilità ma il costo unitario dell’ora lavorata.

Eccoci dunque arrivati infine al tema della qualità delle regole e degli istituti che tutelano il lavoratore che ricade nelle diverse tipologie del lavoro atipico: pensioni, retribuzioni, previdenze sanitarie, ferie, malattia ecc. Tutti questi istituti costano, ma il loro costo è ampiamente compensato dal beneficio che l’impresa trae dalla temporaneità del rapporto di lavoro. Dobbiamo allora chiederci per quale motivo questo non avvenga, e qui si ritorna al tema del lavoro atipico pensato come vestito giuslavoristico per regolamentare un’emersione minimamente accettabile del lavoro assegnato allora ai giovani e alle donne negli anni ’80 e ’90: il lavoro irregolare, discontinuo e sottopagato.

La diffusione del lavoro irregolare normato come “atipico” ha consentito l’abbassamento vertiginoso del tasso di disoccupazione ufficiale del nostro Paese, ma, per una “inspiegabile” dimenticanza prospettica, ha contribuito a far perdere la memoria della sua genesi e della sua finalità, al punto da far credere a qualcuno che quei posti di lavoro irregolari, divenuti ora “lavori atipici”, siano figli attuali della cosiddetta ipertutela dei lavoratori delle imprese sottoposte all’art 18, e non appunto dell’innovazione giuslavoristica degli ultimi quindici anni. Sia detto questo, essendo ben chiaro che i lavori atipici di oggi sono comunque decisamente meglio del lavoro irregolare di ieri. Insomma una questione che viene da lontano, che è scritta nel dna del nostro sistema imprenditoriale e nel costume nazionale, che ha una sua dinamica propria e che non trova nell’esistenza dell’art. 18 la motivazione specifica della sua esistenza.

Queste considerazioni e queste domande desideravo porre, come considerazioni di un non giuslavorista.

Giuseppe Ucciero



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