8 febbraio 2010

LA VITTORIA DEI VECCHI


Milano è una città di vecchi: il 50% della popolazione è sopra i 50 anni di età e questa percentuale è limitata dalla presenza di oltre 300 mila immigrati che hanno età media intorno ai 30 anni. Milano non è una città per poveri: quasi il 40 % del reddito cittadino viene da rendite (intese come tali anche le pensioni) contro una percentuale inferiore al 30% come reddito da lavoro dipendente. Milano è una frazione territoriale non superiore al 20% della “Grande Milano”, intendendo con essa il conturbato urbano che ininterrottamente va da Como Brogeda alla provincia di Pavia e Lodi, senza nemmeno i cipressi “alti e forti” della strada di Bolgheri.

Milano è un quartiere fatto da case dal costo altissimo, di proprietà dei suoi cittadini più vecchi, che costruisce case dal costo ancora più alto che i giovani, magari precari e non di buona famiglia, non riusciranno mai a comprare e dove troveranno posto solo come badanti per gli anziani proprietari.

Milano è un quartiere di vecchi e ricchi che elegge come sindaco la più ricca anche se non ancora la più vecchia, che governa il paesino dal salotto ovattato di casa propria, dove vive per la maggior parte della sua giornata, come del resto gran parte dei suoi sudditi (pardon, concittadini).

Milano è una città-quartiere che vive la presenza dei giovani, studenti o nullafacenti, come un fastidio, un problema da gestire possibilmente senza infastidirsi troppo e nella quale la frase più ricorrente è “ai miei tempi non c’era tutta questa maleducazione dei ragazzi”.

Milano è una città che non ha un’idea condivisa per il futuro, che si affida agli amministratori di condominio o alla “sciura” che governa attraverso i suoi impiegati e che pianifica con l’orizzonte dei vecchi, quelli che non amano (più) le avventure e il rischio e che tengono al mattone e ai Bot e che fanno l’elenco dei divieti e non quello delle opportunità.

Non è la prima volta che succede, a Milano. Quando il Ducato che dava la cittadinanza “agli uomini e alle donne (!) che sanno un’arte, un mestiere e comunque lavorano. Li altri no”, che attirava Leonardo e i mastri artigiani cade in mano agli Spagnoli delle “grida” vacuamente proibizioniste, le forze giovani e d’ingegno vanno nella vicina Bergamo amministrata dalla Serenissima mettendo le basi per lo sviluppo nei secoli successivi di un territorio economicamente produttivo di cui si trovano le evidenti basi ancora ai giorni nostri, mentre la Peste Nera procura a Milano la decadenza più profonda.

La Milano delle Cinque Giornate, di Cattaneo capo degli insorti e al tempo stesso insigne intellettuale europeo, la Milano che porta nel suo Consiglio Comunale i fratelli Verri e Cesare Beccaria, con l’Unità d’Italia diventa una provincia del Piemonte cui applicare, con la legge di Urbano Rattazzi, i regolamenti rigidamente centralisti dei savoiardi e viene tagliata fuori dalla nascita del nuovo Stato e della nuova classe dirigente. Quando occorre, come fa il generale Bava Beccaris, con le cannonate.

La Milano del centrosinistra, del riformismo socialista e cattolico, dei piani di sviluppo e del boom industriale prima, della modernità europea poi, che genera una classe dirigente politica autorevole, in grado di porsi come regolatore e mediatore anche dei conflitti sociali, che gestisce l’impatto dell’immigrazione dal Sud che arriva a pesare oltre il sessanta, settanta per cento della popolazione, con in giro un’aria da “non si affittano case ai terroni” mica da ridere, lascia il posto, dopo Tangentopoli, a una combriccola di “politici del fare (gli affari propri) ” dietro i quali ricompaiono le vecchie, care, grandi famiglie del Cubino e del Circolo dell’Orologio che riporta quel vecchio spirito milanese di grande attenzione ai problemi dell’oggi, che si esplicita nella realizzazione di magnifici giardini interni ai palazzi gentilizi e al massimo risparmio nella tenuta del verde pubblico.

Quel verde pubblico che, quando ero ragazzino, era costellato di cartelli “vietato calpestare l’erba” totalmente ignorato da sciami di aspiranti imitatori di Mazzola e Rivera che, tenendo d’occhio l’arrivo del ghisa senza pistola e manganello, imparavano a stare assieme e a sognare il futuro.

La decadenza a Milano c’è quando i giovani sono visti come un fastidio e, quei pochi che ci sono, sono inchiodati da divieti e indicazioni in negativo.

Come nella poesia del Porta, quando c’è qualcuno che grida ” Se po’ no, se po’ no”, ci vuole qualcuno che risponde sfrontato ” Ma mi la fo”.

 

Franco D’Alfonso



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