26 giugno 2018

musica – UN QUARTETTO GIOVANISSIMO


Di tutta la musica che ho ascoltato in questa ultima settimana, quella che mi ha colpito di più è stata eseguita da un quartetto d’archi composto da giovanissimi interpreti per il ciclo “Le dimore del Quartetto” nel poco conosciuto Castel Secco Suardo – o Castello di Lurano – sulla strada che da Bergamo scende a Treviglio.

Musica_24_castello Secco Suardo

Delle “Dimore del quartetto“ (www.ledimoredelquartetto.eu) questa rubrica si è già occupata più volte raccontando come sia essa una costola della Società del Quartetto, voluta e diretta da Francesca Moncada e musicalmente curata da Simone Gramaglia del Quartetto di Cremona. Funziona così: a giovani quartettisti, che soprattutto quando non abitano nella stessa città hanno difficoltà a studiare insieme, viene offerta l’ospitalità di qualche giorno o settimana – le cosiddette “residenze” – in diverse dimore storiche per trovarsi, lavorare e provare in pace. Alla fine del soggiorno saranno loro ad offrire – a un pubblico più o meno vasto, in funzione della dimensione degli spazi disponibili – un concerto di presentazione del risultato del loro impegno.

Le dimore prescelte sono generalmente antiche ed aristocratiche (ville, castelli, palazzi, ecc.), i padroni di casa sono ovviamente amanti della buona musica ed inclini al piacere dell’ospitalità, e i concertisti possono cogliere un’occasione per concentrarsi e per sperimentare la vita in comune che il mestiere di quartettista imporrà loro durante le tournée in giro per il mondo. Il Castello di Lurano, che ha ospitato l’ultimo concerto, è un borgo agricolo fortificato che nasce nel Medio Evo e che alla fine del settecento viene trasformato in Orto Botanico, sicché le sue corti interne sono oasi verdi di pace e di bellezza. La famiglia Secco Suardo, che lo possiede fin dal quattrocento, da secoli è nota perché molti suoi membri sono o sono stati specializzati nel restauro di opere d’arte; al punto che oggi il castello è sede del Centro Studi e dell’Archivio Nazionale dei Restauratori Italiani.

In questo suggestivo ed inusuale ambiente, sabato 16 abbiamo ascoltato il Quartetto “Eos” la cui straordinaria caratteristica, oltre a quella di essere eccellente, è l’età dei suoi componenti: il più vecchio non raggiunge i ventidue anni, il più giovane ne ha appena diciotto. Sono romani (e già questo li rende anomali, se si pensa a quanto poco in questi anni Roma sia adatta a far crescere eccellenze in campo musicale) e guardando il loro curriculum si resta sbalorditi per ciò che hanno già “conquistato” nei due anni trascorsi dal loro incontro e dalla decisione di suonare insieme. Non ho dubbi nell’affermare che il difficile e magico Quartetto numero 8 opera 110 di Dmitrij Šostakovič è stato eseguito non solo alla perfezione ma con una profondità di pensiero ed una passione insuperabili. Elia Chiesa e Giacomo Del Papa ai violini, Alessandro Acqui alla viola e Silvia Ancarani al violoncello, non sono quattro ragazzi ancora alla ricerca di affermazione e di riconoscimenti ma quattro maturi musicisti già sicuri di sé e consci delle loro qualità; si percepisce che hanno assimilato Šostakovič quasi fosse stato il loro maestro di musica e di vita, e che sono riusciti a far riecheggiare nella sua musica le tragiche vicende personali, artistiche e politiche che ne hanno segnato l’esistenza.

Il Quartetto di Šostakovič è stato preceduto dal Quartetto opera 18 numero 4 di Beethoven e dall’etereo Langsamer Satz (letteralmente “Movimento lento”, ancora rigorosamente tonale) di Anton Webern. La lettura di queste due opere, benché ineccepibile, è stata decisamente più tradizionale e meno sorprendente, forse perché si trattava di lavori giovanili (quando sono stati composti, Beethoven non aveva trent’anni e Webern poco più di venti) lavori che il quartetto Eos ha voluto mettere molto opportunamente a confronto con l’opera di Šostakovič scritta quando l’autore aveva già cinquantaquattro anni e dunque molto più matura e complessa. Ma il confronto si è rivelato ricco di interesse anche per le date delle composizioni: Beethoven scrive il suo quartetto allo spirare del ‘700, fra la rivoluzione francese e l’avvento di Napoleone, Webern nei primi anni del novecento e dunque al tramonto dell’impero asburgico, il quartetto di Šostakovič arriva solo nel 1960, dopo le due guerre mondiali e nel complicato periodo post stalinista. Tre momenti di svolta della storia europea.

Vorrei anche osservare come l’affinità fra le tonalità delle opere accostate nel programma del concerto abbia aiutato sensibilmente a goderne e ad approfondirne l’ascolto: i quartetti di Beethoven e di Šostakovič sono entrambi in do minore (la drammatica tonalità della “Patetica”) mentre il mi bemolle maggiore in cui è scritto il Langsamer Satz è il relativo maggiore del do minore, vale a dire la tonalità ad esso più prossima (le due tonalità hanno entrambe in chiave sib, lab e mib e dunque le tre opere hanno la scala fondamentale costituita dalle stesse note). Non tutti gli ascoltatori l’avranno recepito, ma il permanere lungo tutto il concerto di tonalità uguali o affini fra loro, crea un mood particolarmente favorevole all’ascolto e quindi alla percezione del più profondo senso musicale.

Bravi dunque i quattro ragazzi dell’Eos, e bravi anche i loro insegnanti (Quartetto di Cremona in primis), non solo per come hanno eseguito ed interpretato opere così complesse, ma anche per come hanno saputo mettere insieme un palinsesto capace di dialogare intelligentemente con il pubblico.

Rubrica a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.it



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