2 febbraio 2010

RICORDANDO BEPI TOMAI


 

Non sono il più titolato a ricordare Bepi. Certamente altri, molti altri, hanno avuto il privilegio di conoscerlo meglio e di essere loro amico. Altri sono in grado di descriverne il profilo e il contributo offerto come formatore, dirigente, innovatore sociale, imprenditore dell’innovazione e l’hanno fatto giustamente nel recente convengo a Milano. Però l’ho conosciuto, abbiamo intrattenuto lungo più di vent’anni un rapporto professionale per me prezioso, condividendo alcune iniziative ed esperienze professionali, tanto più importanti perchè fissate nella fase più significativa, quella iniziale, del mio percorso.

Per questo desidero ricordarlo a cinque anni dalla sua morte. O meglio desidero ricordarlo per un senso di gratitudine e per il riconoscimento di alcuni suoi essenziali lasciti, a metà tra il professionale e il personale.

Chi era per me Bepi Tomai? Intanto era una persona aperta, un dirigente che non si faceva scudo del suo potere, pur sapendo bene cosa fosse e come usarlo.

Nel 1981, io laureando ventiseienne, ho avuto l’opportunità di collaborare a progetti allora assolutamente innovativi, centrati sulla figura dell’operatore dello sviluppo di aree cosiddette periferiche o in ritardo di sviluppo. Progetti “aperti” di sviluppo locale, focalizzati sull’idea che anche i contesti più marginali, si trattava della Valvarrone, angusta e scoscesa valle laterale del ramo lecchese del lago di Como, potessero trovare una propria via di sviluppo a partire dal riconoscimento e dalla mobilitazione delle proprie risorse. Innovazione sociale, dunque, accompagnata da facilitatori, esperti, apportatori di conoscenze e relazioni, risorse essenziali per “fare Rete”. In questo ambito, direi di più in questo clima, anche un ex operatore politico poteva trovare un contesto in cui mettere a fuoco e valorizzare competenze, sensibilità e capacità, maturate nella pratica precedente. E come me molti altri, perché Tomai era persona aperta, che leggeva e scommetteva sulle persone, essendo cosciente del rischio della delusione, che in alcuni casi fu anche cocente.

In questo ambito, Tomai era il principale punto di riferimento, certo c’era anche Aldo Bonomi, che tuttavia sembrava allora a noi, limitati personaggi locali, un po’ catapultato da altri mondi e un po’ difficile da capire, con quel suo linguaggio sofisticato e un po’ ermetico. Tomai, no, si capiva bene quello che diceva e soprattutto vi era la sensazione concreta di avere ascolto non condiscendente e non distratto. E poi dava autonomia, intellettuale e operativa.

A questo contribuivano, in un tratto personale che ne definitiva unitariamente la figura, sia convinzioni profonde che sensibilità caratteriali. Ne ebbi altra riprova quando, qualche anno dopo, potei, grazie a lui, avviare lo sviluppo di progetti di formazione professionali, e la stessa ricostruzione dell’Enaip locale, in una Sondrio addormentata, era il 1985, ma potenzialmente ricettiva a stimoli mirati.

Poi le nostre strade si divisero, anche se ogni tanto, per caso o per volontà, ci si risentiva e ci si vedeva, specie negli ultimi anni che passò al Formez, essendomi anch’io nel frattempo trasferito a Roma come direttore di Elea. Dunque per me Bepi Tomai, fu l’uomo dei primi passi, della fiducia, delle opportunità, dell’imprinting professionale e questo oggi lo riconosco grato, intravedendo ora meglio di quanto fosse allora, il valore di alcune visioni e prassi, la soggettività, l’imprenditorialità, la rete orizzontale, il valore della persona e dei suoi talenti. Ecco: visioni e prassi, difficilmente separabili in un’azione multidisciplinare che mirava sempre alla valorizzazione del soggetto, fosse esso individuale o sociale, nei contesti di vita.

Hombre oral, si dice di lui, ma a me è sempre parso un uomo fondamentalmente timido, che era spinto verso gli altri da un grande ottimismo e fiducia e da tanta curiosità, diremmo quasi antropologica.

A differenza di quanto ricordano in molti, in Bepi non vidi mai il simpatico, né tantomeno il simpaticone, l’uomo che intrattiene, anche perché da bravo timido quale sono, ho presto imparato a riconoscere i miei simili.

E i suoi silenzi casalinghi, così ben descritti dal figlio nel bel libretto a lui dedicato con altri e così differenti con i ricordi pubblici, me lo restituiscono certo più coerente a come l’avevo colto. Hombre vertical: forse è più adatta a lui questa immagine, uomo di principi così solidi da consentirgli di ascoltare e parlare con tutti, anche i più distanti e livorosi. Uomo che, restando fedele a essi, si è forse, anzi certamente, impedito evoluzioni esistenziali e professionali ancora più alte e visibili. Ma non sarebbe stato Bepi.

E allora ricordiamocelo così, ognuno come vuole certamente, io con il mio personale frammento magari sfocato, forse inesatto, ma comunque sincero e grato.

 

 

Giuseppe Ucciero

 

 


 



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