24 aprile 2018

“L’ULTIMO BANCO” IL LIBRO DI GIOVANNI FLORIS

Non lo leggerò


Da tempo leggo molto di “scuola e dintorni”. Della Finlandia che è diventata il “Paese di riferimento” (in Europa almeno) per i risultati ottenuti e per il modo in cui li ha ottenuti, della fortissima e in parte discutibile ascesa dei Paesi asiatici (Corea, Singapore, Shanghai) nelle graduatorie internazionali sul livello di apprendimento degli studenti, e soprattutto dei tanti esperimenti in atto in altri Paesi per ottenere dalla scuola risultati più adeguati alle esigenze degli studenti, delle loro famiglie e della società tutta.

lizzeri16FBPartendo per me da una constatazione, purtroppo così necessaria nel nostro Paese: se tutto è cambiato nella nostra società negli ultimi sessant’anni, soprattutto per quanto riguarda i circuiti dell’informazione, il modo di insegnare non può rimanere di fatto lo stesso di decenni fa.

Sono rimasto per questo colpito dalla recensione pubblicata sul Corriere della Sera del 18 aprile a firma di Ferruccio de Bortoli sul libro “L’ultimo banco” di Giovanni Floris che è uscito la settimana scorsa in libreria. Se la recensione mette in evidenza la sostanza di quel libro credo che il suo contributo “culturale” sul tema della scuola sia quasi negativo. Avevo letto il libro di Floris del 2008 “La fabbrica degli ignoranti” sullo stesso tema. Anche allora ricco di annotazioni giornalistiche importanti sugli aspetti negativi della scuola, ma poverissimo di indicazioni sul modo in cui superarle. Non so se leggerò il nuovo libro recensito da de Bortoli. Per adesso motivo le mie perplessità considerando quello che la recensione, con netti apprezzamenti positivi, mette in evidenza.

Il talento non esiste. Se ho capito bene Floris afferma che il “talento non esiste”, nel senso che il talento ce l’hanno in maniera uguale tutti gli scolari. E’ un’affermazione ad effetto. Arriveremmo sui banchi della scuola tutti con ugual talento. Sarebbe la scuola che poi ci scagliona su classi di talento diverse. Su quanto fa la scuola non discuto. Sul fatto che arriviamo a scuola tutti forniti di talento mi sembra invece necessario dissentire.

E dissento prendendo in prestito la frase Del premio Nobel James Heckman: “the accident of birth is the greatest source of inequality”. Questo vale in ogni Paese. Ancor di più in un Paese come il nostro dove non si fa nulla per “pareggiare il talento” quando questo è ben più possibile e cioè nei sei anni prima della scuola. In pochi Paesi si è riusciti a fare qualcosa per modificare questa drammatica stratificazione.

La Finlandia è il Paese che più di altri ce l’ha fatta. Il suo sistema scolastico riesce a far raggiungere ottimi risultati di apprendimento scolastico alla grande maggioranza degli scolari. Come? In Finlandia tutti i bambini vanno al nido ed alla scuola materna. Gli insegnanti finlandesi nella scuola elementare e media non stanno in cattedra ma si siedono in mezzo ai loro scolari. In Finlandia sono state cancellate le “materie di insegnamento” perché il bambino impara meglio se gli si insegna in modo interdisciplinare. E fino a 13 anni in Finlandia non si danno voti.

Visti i risultati, non val la pena “importare” qualcosa da quel Paese?

Il ruolo sociale degli insegnanti. Sempre seguendo la recensione di de Bortoli, il libro di Floris insiste molto su quanto sia negativo lo scarso apprezzamento che la nostra società dà al mestiere dell’insegnante e sulla necessità di ridare un ruolo sociale “adeguato” agli insegnanti. Tutti sappiamo che la scuola è una grande burocrazia, spesso assurda e disfunzionale. Giustamente Floris ne parlava a lungo nel suo libro del 2008 e lo farà certamente anche in questo suo nuovo. Però non ci si può fermare lì. Nella scuola lavorano quasi solo dei laureati, e sono all’incirca 800.000 persone. Potrebbe essere la più grande concentrazione di sapere accumulato che esiste in Italia. Gli insegnanti (non tutti, ma una larga maggioranza) sanno ciò che debbono insegnare.

Ma quanti di essi sanno come insegnare, come essere autorevoli, come “entrare” nella testa dei loro studenti in modo da lasciare il segno? Quale è il meccanismo con cui si valuta il “talento” non dei ragazzi, ma degli insegnanti? Quanti blog esistono tra insegnanti interessati a mettere a fattor comune esperienze positive di insegnamento, delusioni, successi, insuccessi? Se la scuola italiana sforna, come risulta dall’indagine PISA e Floris mette in evidenza, studenti poco capaci nel collaborative problem solving, forse è anche perché il “collaborative problem solving” tra le centinaia di migliaia degli insegnanti italiani è estremamente basso.

La perdita di autorità degli insegnanti. La recensione di de Bortoli richiama la sottolineatura di Floris sulla necessità che i genitori debbono essere i primi alleati degli insegnanti. Concordo. Concordo anche con la valutazione data su tutti i casi citati di familismo idiota (della serie “mio figlio è bravo comunque”). Ma quanti sono gli insegnanti che sanno tenere con i genitori un flusso di informazione continuativo? E magari sanno usare Whatsapp e la posta elettronica per farlo? La perdita di autorità da parte di molti insegnanti è inevitabile. Di fronte ad alunni che a partire dalla quarta elementare sanno già usare tutte le nuove tecnologie, l’insegnante è spiazzato due volte: in primo luogo perché conosce quelle tecnologie molto meno di metà dei suoi alunni, in secondo luogo perché dato che la scuola non è in grado di utilizzarle in modo positivo, quelle tecnologie diventano nella scuola quasi solo una eccezionale arma di distrazione di massa.

Non è semplice quindi recuperare un ruolo sociale nuovamente positivo della scuola e dei suoi insegnanti. Ma, anche per questo motivo, perché la scuola deve restare chiusa e non aprirsi nei confronti delle tante competenze che ha intorno? Esiste la possibilità di chiamare, gratuitamente, il genitore medico di un alunno a spiegare il corpo umano in un modo che nessun insegnante sa fare, di utilizzare gratuitamente l’assistente sociale che lavora in parrocchia o in altri tessuti sociali per organizzare momenti veri di vita collettiva tra gli studenti, o di utilizzare un giovane musicista che ha tempo e voglia per organizzare la banda della scuola. Il tutto ovviamente solo sotto il coordinamento del personale insegnante. Si può sbagliare al primo colpo, ma su questa strada quanto si può fare e quanto avrebbe da guadagnarci la scuola e i suoi insegnanti?

Per questo mi par bello concludere con un esempio interessante, ed anche umanamente di grande valore.

Lucy Kellaway è stata per tre decenni una collaboratrice molto stimata del Financial Times. Giunta a 58 anni, e con i suoi 4 figli oramai grandi, la Kellaway si è dimessa lo scorso anno dal Financial Times e sta facendo un corso di training per diventare insegnante di matematica in una problematica scuola media della periferia di Londra. Nel frattempo, usufruendo anche del network di rapporti accumulati in tanti anni di collaborazione con il Financial Times, ha creato una associazione che aiuta altre persone come lei interessate a dedicare la seconda parte della loro vita professionale all’insegnamento in scuole inglesi inserite in contesti sociali problematici. Una volta al mese la Kellaway scrive sul Financial Times di questa sua esperienza: in particolare di come, una professionista capace di parlare ad una platea di centinaia di businessmen tenendo inchiodata la loro attenzione, faccia fatica a tenere alta l’attenzione dei suoi alunni mentre insegna matematica, la materia per lei più congeniale. Ma ci sta riuscendo.

Al di là del pregevole caso umano, l’esempio della Kellaway serve anche a ridare prestigio alla scuola dove insegna e agli insegnanti che vi lavorano. Funziona solo se la scuola non sta chiusa in se stessa.

Giancarlo Lizzeri

 

Saunalahti school



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