12 marzo 2018

UNIVERSITÀ STATALE A RHO

Dialogo col manganello


Il 6 marzo alle 14 era prevista alla Statale in via Festa del Perdono, l’Università dove ho studiato negli anni ‘70, la riunione del Senato Accademico per deliberare definitivamente se trasferire le facoltà scientifiche da Città Studi a Rho, e per me che come cittadina ero andata a sostenere gli studenti che protestavano (molti di questi li conosco e apprezzo da oltre un anno), è sembrato di ripiombare indietro in quegli anni politicizzati, dove in via Larga e zone limitrofe i reparti della polizia in assetto antisommossa erano quasi all’ordine del giorno. Solo che questa volta, nel 2018, il clima e il contesto sono molto diversi e quella visione mi ha notevolmente turbato.

04romano10FBIl Rettore Vago ha deciso all’ultimo momento di spostare la seduta nella Sala Napoleonica in via S. Antonio. Polizia e carabinieri hanno bloccato la strada da entrambi i lati per non lasciar passare gli studenti che volevano verbalmente esprimere ancora una volta il loro dissenso nei confronti di una decisione calata dall’alto e non condivisa, manganellandoli per ben due volte, tra le proteste dei tanti cittadini presenti, tra cui esponenti politici come Massimo Gatti, Onorio Rosati, Basilio Rizzo, Renato Sacrestani, Patrizia Bedori.

Ora c’è da chiedersi: ma è normale che su un fatto di tale gravità nessun esponente dell’attuale Amministrazione Comunale abbia sentito la necessità di condannare quanto avvenuto? Ed è normale che il direttore generale dell’Università dica a un gruppo di cittadine, che distribuiscono un volantino con una valutazione comparativa degli effetti e dei risultati tra il rimanere a Città Studi o andare a Rho Expo e che gli chiedono di intercedere presso la polizia e lasciar passare gli studenti, che “questo è fascismo”?

La degenerazione della lingua italiana, la perdita di senso delle parole: decisori della Statale che parlano di fascismo – termine abusato a seconda delle convenienze – a chi argomenta la contrarietà al trasferimento con dati, numeri e casi concreti, mentre a pochi metri di distanza le forze dell’ordine intervengono duramente sugli studenti con le mani alzate.

Alla perdita di senso della parola, si accompagna la perdita di senso dei luoghi. Si pensa di trasferire gli studenti in un non luogo, locuzione introdotta dall’antropologo Marc Augé per definire tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Come lo è l’area di Expo delimitata da due tangenziali e una ferrovia, “infrastrutture viabilistiche che la separano completamente dalla città”, come si legge in documenti ufficiali (1).

La sensazione avuta vedendo tutta quella polizia, è che c’è una gran fretta di chiudere la partita post Expo e, per far questo, il trasferimento dell’Università è un elemento essenziale.

L’Amministrazione milanese e la Regione Lombardia non si possono certo permettere che la retorica dell’Expo prima e del post Expo ora, con straordinari render della futura città della scienza, venga offuscata da contestazioni di alcun tipo. Figuriamoci se provenienti dagli studenti.

Milano è la città considerata in tutto il Paese come la locomotiva del rilancio dell’intero Paese, il simbolo dell’innovazione, dove il dialogo tra pubblico e privato si intensifica. Quest’immagine non può essere messa in discussione. Tutto ciò è diventato molto chiaro a chi contrasta la scelta del trasferimento.

Chissà quante critiche verrebbero mosse oggi al filosofo tedesco Walter Benjamin che nel 1935 nel suo libro “Parigi, capitale del XIX secolo”, definì le esposizioni universali “Siti di pellegrinaggio per il feticismo della merce”.

L’imperativo che ci sentiamo ripetere è quello di guardare avanti, di saper trasformare un problema in opportunità. Senza soffermarsi a far luce su chi ricada la responsabilità di aver generato quel problema originario e senza neppure prendere in considerazione che la risoluzione di quel problema, area Expo, creerà a sua volta un nuovo problema a Città Studi, quartiere che subirà un espianto e il cui futuro, nonostante le continue rassicurazioni da parte del Comune, rimane a tutt’oggi incerto.

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Tanti cittadini, a vario titolo, hanno cercato negli ultimi due anni di contrastare con una critica costruttiva decisioni imposte e non condivise, che comporteranno cambiamenti traumatici per un intero quartiere della città, una probabile cementificazione che andrà a snaturare l’identità storica di Città Studi. Ma non sono stati ascoltati.

La nostra tesi che un intervento sull’esistente, la riqualificazione degli edifici a Città Studi, sarebbe stato preferibile anche in funzione di quell’integrazione diretta tra una parte di città e l’università, è sempre stata snobbata.

Meglio etichettarci come miopi conservatori, preoccupati unicamente del valore dei nostri immobili. Meglio andare avanti, in fretta, e rassicurare su tutti i fronti.

In fondo è questo che vuole la gente: essere rassicurata e gratificata dallo scintillio dei nuovi grattacieli e degli shopping center. I milanesi sono famosi per correre sempre e, nella fretta, non hanno tempo per farsi domande scomode che richiederebbero una presa di coscienza spesso dolorosa. Come invece è capitato a molti di noi.

Marina Romanò

1) Alessia Candito, Chi comanda Milano, 2013, Castelvecchi Editore



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