20 febbraio 2018

musica – FILOLOGIA E DINTORNI


Nelle ultime settimane questa rubrica si è molto occupata di musica contemporanea. Oggi, invece, riferendo di alcuni ascolti recenti, si occuperà di barocco. Come se in questo periodo, fatto il pieno di musica classica e romantica, volessimo allargare lo sguardo al dopo e al prima.

musica07FBTutto è cominciato con i sei “Concerti Brandeburghesi” di Bach, che Fabio Biondi ha eseguito – tutti, uno dopo l’altro – nella stessa serata del 30 gennaio al Conservatorio per la Società del Quartetto. Sala stracolma (Bach, si sa, è una potente calamita), strumenti d’epoca, prassi esecutiva rigorosamente barocca (niente vibrato, per carità), un rigore filologico da fare invidia ai complessi belgi e olandesi, 22 musicisti (tutti uomini con una sola donna, la cembalista Paola Poncet, che cito quasi per … riparazione!) che si alternavano sul palco per formare i diversi organici richiesti da ciascun concerto. L’Ensemble di Biondi si chiama “Europa Galante” ed è nato ventotto anni fa. Sono espertissimi, serissimi, bravissimi. Mai un attimo sopra le righe. Conclusione: meravigliosi e noiosi insieme.

Prima di commentare questa palese contraddizione diciamo anche del concerto che Jordi Savall ha proposto due settimane dopo nelle stesso luogo per lo stesso committente con un organico specializzato in musica barocca (dunque anche lui filologo e ricercatore), fondato ventinove anni fa e composto da sei componenti tutti (anche loro!) rigorosamente maschi. L’Ensemble di Savall si chiama “Le Concert des Nations” ed il programma della serata s’intitolava “Tous les matins du monde…”. La musica – una carrellata di autori francesi del sei/settecento (più del sei che del sette) – spaziava da Eustache Du Caurroy (1549-1609) a Jean Baptiste Lully (1632-1687), dal celebre Monsieur de Sainte Colombe (1640-1701) all’allievo Marin Marais (1656-1728), dai due grandi François Couperin (1668-1733) e Jean Philippe Rameau (1685-1764, dunque coetaneo di Bach, di Händel e di Scarlatti!) fino al più giovane di tutti Jean Marie Leclair (1697-1764). Bellissime le musiche, bravissimi ed impeccabili i musicisti che lasciavano trapelare l’impegno di una vita alla ricerca della perfezione assoluta; insomma non si poteva chiedere nulla di più. Conclusione: meravigliosi e noiosi insieme.

A questo punto ci si deve chiedere perché noiosi, e una risposta credo di poterla azzardare: la musica barocca nasce per essere eseguita nelle corti o nei salotti, in ambienti relativamente piccoli, per un pubblico sostanzialmente distratto (che chiacchierava, mangiava, beveva, senza alcun rispetto per i musicisti considerati poco più che servitori), quasi come musica da sottofondo o da accompagnamento (anche quando accompagnava un’importante cerimonia come un’incoronazione o un matrimonio, ma chi l’ascoltava?); oggi la stessa musica viene proposta in un teatro o in un auditorium da 1000 o 2000 posti, ad ascoltatori inchiodati su poltrone normalmente scomode (vogliamo parlare di quelle terribili poltroncine della sala Verdi del Conservatorio?), con l’obbligo del silenzio assoluto (e ci mancherebbe!), insomma in una situazione che si presenta totalmente diversa – per l’ambiente, l’acustica, le condizioni di ascolto, ecc. rispetto all’epoca nella quale e per la quale quella musica è stata composta. Come si può correttamente parlare di esecuzioni “filologiche”? A meno che – e questa è forse la giusta chiave di lettura – queste – esecuzioni non vengano proposte come “serate di studio”, cioè come eventi del tutto diversi dalle “feste musicali” che normalmente ci aspettiamo da un concerto; vorremmo che il concerto fosse godimento puro, dello spirito e dei sensi, momento di concentrazione e di raccoglimento sulla nostra natura di uomini, che avesse a che fare più con la cultura che con l’erudizione o con la mera voglia di conoscenza.

Sono dell’avviso che – dopo averla meritatamente scoperta, studiata e fatta conoscere – non abbia gran senso andare troppo oltre con la prassi esecutiva barocca e con l’interpretazione filologica dei testi. Occorrerebbe invece – quando sono dei capolavori come quelli che abbiamo appena ascoltato – trarre da essi quanto di eternamente moderno contengono, renderli godibili e attuali come si fa con il teatro greco o con l’opera settecentesca, beninteso senza mai intaccarne e snaturarne il senso e la natura.

Un esempio interessante in proposito ci è stato offerto in questi giorni dalla Scala, e sarà ancora fortunatamente godibile nelle tre ultime repliche del 2, 21 e 22 marzo. Si tratta del balletto creato del coreografo tedesco Heinz Spoerli sulla musica – tenetevi forte! – delle Variazioni Goldberg di Bach. Credo che nessun autentico bachiano avrebbe scommesso un penny sull’idea di veder ballare la musica delle Goldberg, quintessenza dell’anima luterana e della spiritualità tedesca, e cioè quanto di più lontano si possa immaginare dall’eleganza formale e dall’erotismo dei movimenti corporei dei ballerini. Eppure lo spettacolo del corpo di ballo della Scala – di cui ha parlato con grande competenza, nella sua rubrica del 6 febbraio scorso, il nostro Domenico G. Muscianisi – è meraviglioso. Trenta bravissimi ballerini e ballerine, a mio giudizio eccellenti, hanno dato un senso a ciascuna delle trenta Variazioni, basandosi sulla profonda ed ineccepibile interpretazione del pianista ucraino Alexey Botvinov.

Ecco il caso di una musica originariamente scritta per “clavicembalo a due manuali” ed eseguita su un moderno pianoforte gran coda senza nulla concedere alle esigenze del palcoscenico, ed interpretata, oltre che dall’ottimo pianista, da quelle ragazze e quei ragazzi che pieni di vitalità raccontavano con i loro corpi quanto di eterno e di indelebile vi è nelle note del grande Bach. Uno spettacolo che non si dovrebbe perdere!

Paolo Viola

Questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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