26 gennaio 2010

NUOVA PROROGA PER I PGT. È FINITA UNA STAGIONE


A questo punto comincia a sorgere il dubbio che a Milano non ci sia molta voglia di approvare il piano di governo del territorio. E questo non ostante gli appelli del sindaco e dello stesso Berlusconi.

Certo non da parte dell’assessore Masseroli che, bene o male, ci ha messo tempo e dedizione, ma forse da parte delle altre componenti politiche della maggioranza. Potrebbe anche essere un atteggiamento realistico viste le difficoltà che il sindaco trova nel coagulare il consenso. In Regione, infatti, si sta profilando la terza proroga per la scadenza dei PGT. Si pensa, secondo quanto riferito dall’assessore Boni, di posticiparne appunto la scadenza dal 31 dicembre 2010 alla fine di marzo 2011, quando molti comuni, tra cui anche Milano, saranno coinvolti nella campagna elettorale. Siccome è evidente che quanto accade a Milano non può non condizionare le scelte che si fanno in Regione, il sospetto che si stia decidendo di lasciar macerare i PGT ancora per un po’ di tempo ci pare abbastanza fondato. Tanto più che dal regime di salvagaurdia verrebbero esclusi i comuni interessati alle opere di Expò 2015. Se le opere si possono fare lo stesso, e così pure gli affari, evitando la conflittualità che inevitabilmente suscita la discussione sui piani urbanistici, perché andare in cerca di guai? È vero, del resto, che ci sono parecchi comuni inadempienti, ma è difficile pensare che tre mesi di proroga possano risolvere il problema. Alla fine, comunque, la proroga complessiva, dalla prima approvazione della legge 12, sarà di ben due anni. Ammesso che nel frattempo non se ne facciano altre.

Staremo a vedere cosa succede a Milano e cosa decideranno in Regione, ma intanto si può trarre un primo bilancio sull’efficacia della legge 12 e proporre un paio di riflessioni.

Tra i 1546 comuni lombardi solo il 12% ha approvato il PGT ai sensi della nuova normativa, e solo il 17% lo ha formalmente adottato. Gli altri 1059 comuni sono fermi. Non pare un gran successo. Ma siccome le norme innovative ci mettono del tempo a far valere i loro effetti, questi dati non possono in assoluto essere considerati una prova d’insuccesso. I risultati che non si sono ancora prodotti potranno sempre aversi in un prossimo futuro. Almeno in teoria. Nel caso specifico, invece, pensiamo che non sarà così. E questo qualche buona ragione.

Quando fu approvata la legge 12, era il 12 marzo del 2005, il nostro paese, e quasi il mondo intero, era nel pieno del boom immobiliare. Le banche davano soldi facili agli immobiliaristi per la trasformazione dei terreni, davano mutui “generosi” agli extracomunitari, che potevano così sostenere, “democraticamente”, “dal basso”, il mercato comprando a sovraprezzo le case più malandate della periferia, sostenevano l’apertura di fondi immobiliari e società miste. Il real estate tirava che era un piacere. La legge 12 è figlia di quella stagione e soprattutto dell’illusione che quella stagione potesse non finire mai. Il credito era facile perché pareva che il suolo stesso potesse produrre moneta senza limiti, di quantità e di tempo. La città era finalmente diventata una “growth machine”, e un adeguato modello di “governance” richiedeva che la pianificazione “centralizzata” facesse spazio alla concertazione “organizzata”. Urbanistica ed economia potevano finalmente parlare la stessa lingua, e i ceti popolari, secondo quell’interpretazione, potevano sedersi allo stesso banchetto degli immobiliaristi. Ora è vero che in molti stanno cercando di riaprire quella stagione, si dice che il real estate sia in ripresa e così pure gli hedge fund, ma le condizioni del 2004-2005 non ci sono più e cercare di riprodurle sarebbe una sorta di suicidio collettivo. C’è ancora tanta liquidità, ma le banche devono salvare investimenti e bilanci, non danno più mutui al 120%, devono ricapitalizzare e il credito è molto meno generoso. Ci sono 11 miliardi di prestiti “bullet” in scadenza, in buona parte legati ad avventurose operazioni immobiliari, che rischiano di creare voragini nei bilanci delle banche e forse c’è all’orizzonte qualche altra mina vagante di cui non abbiamo ancora notizia.

Ecco, è questa la riflessione e questo è il nostro modesto suggerimento. Prendiamo atto di quello che è successo. In fondo la crisi finanziaria è stato un avvenimento, questo sì, veramente epocale. È cambiato il mondo e qualcosa sarebbe meglio che cambiasse anche nell’approccio al governo delle nostre città. La “growth machine” richiede l’intermediazione tra gli interessi presenti sul territorio, vuole una certa “partecipazione”, perché alla crescita tutti devono contribuire, chi col capitale, chi col credito e chi con la spesa e col lavoro. A tutt’oggi, però, gli interessi “mediati” sono stati solo quelli degli immobiliaristi. Solo la componente della rendita pare avere capacità di autorappresentanza nelle nostre città, grandi e piccole. A Milano, del resto, lo si percepisce forse più che altrove. Gli interessi diffusi, quelli delle categorie “deboli”, faticano a raggrumare l’energia e le idee per farsi ascoltare. Ma anche la politica ha sbagliato qualcosa e forse potrebbe proporsi in maniera diversa, impegnandosi realmente per organizzare l’ascolto della città. Ecco, si potrebbe ripartire da qui, ragionando sull’attualità di una legge che sembra aver già fatto il suo tempo e dando voce alle diverse anime di una città che oggi, francamente, ci pare poco rappresentata.

Mario De Gaspari



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