26 gennaio 2010

LA CRISI DELLE ASSEMBLEE ELETTIVE (E NON SOLO)


C’è un tema che, sulle pagine dei giornali, di tanto in tanto ricorre: la scarsa produttività dei consigli degli enti locali e, più in generale, delle assemblee elettive. I quotidiani milanesi ne parlano spesso. In questi giorni, Repubblica ci segnala che il consiglio comunale di Milano ha approvato, in tre anni, soltanto 286 delibere. A naso, una a seduta. In Provincia, che ha competenze più ridotte, la situazione (lo dico per esperienza diretta, avendo fatto il presidente del consiglio con Penati) non va certo meglio: anzi! Io credo, allora, sia il caso di riflettere, in argomento, cercando, se possibile, di fare anche un po’ di chiarezza. In premessa, la domanda è: come si misura la produttività di un’assemblea elettiva?

La funzione di un Consiglio degli enti locali è di approvare gli atti fondamentali dell’ente, e di indirizzare e controllare (in senso non ragionieristico) l’attività dell’esecutivo. Quest’ultima funzione in particolare si esercita in molti modi: definendo linee d’indirizzo per la giunta, formulando ordini del giorno e mozioni, presentando interrogazioni, e via discorrendo. In questo contesto, parlare di produttività come se fossimo in un’azienda, a me sembra un po’ superficiale: perché qui c’è di mezzo anche una questione che si chiama democrazia, non misurabile in termini puramente quantitativi.

Ma se di atti consiliari che producono immediati effetti amministrativi ve ne sono così pochi, anche nelle entità di grossa dimensione, qualche problema c’è, evidentemente. In proposito, io ho dubbi che si debba attribuirne la responsabilità soltanto agli esecutivi, poco solleciti a proporre delibere, appunto, per l’assemblea. Il problema è più di fondo: sindaci e presidenti di Provincia (con le loro giunte), da quando sono eletti direttamente, concentrano nelle proprie mani, come ha voluto la legge, moltissimi poteri, parte dei quali in precedenza assegnati ai consigli. Conseguentemente, le assemblee, da anni, sono chiamate a deliberare meno, molto meno che nel passato. E i vertici dell’amministrazione sono poco interessati a parteciparvi. La mia opinione è che vi era indubbiamente l’esigenza di rendere più produttivi gli enti, e questo implicava il rafforzamento, in particolare, degli esecutivi. Ma forse si è esagerato.

La colpa, allora, è del sistema legislativo vigente, detto senza voler con ciò allontanare il problema. Non per nulla, tale situazione fa parlare, da anni, di crisi delle assemblee elettive. Crisi alla quale il parlamento nazionale, ultimamente, ha risposto decidendo quasi semplicemente (vedansi le ultime finanziarie) di ridurre il numero dei componenti le stesse, e di tagliare le indennità dei consiglieri, nonostante esse non siano scandalose, e in ogni caso assai meno elevate di quelle dei parlamentari e anche dei consiglieri regionali. Con queste scelte, i vertici istituzionali hanno così dato l’impressione di ritenere questi organismi un po’ inutili. Chi crede nel valore della democrazia, li considera invece insostituibili, e ritiene che l’esigenza vera è quella di ridefinire in misura equilibrata, senza mancare l’obiettivo dell’efficienza dell’ente, il rapporto fra giunte e consigli, oggi squilibrato a favore delle prime.

È stato detto e scritto tante volte, da destra, dal centro e da sinistra: nessuno desidera tornare ai tempi in cui le assemblee deliberavano anche sull’acquisto delle matite, ma si sente il bisogno di attribuire loro un ruolo (politico, d’indirizzo, di controllo) che sia certo, fattivo. In una parola, vero. Anche se, di questi tempi, si tratta di un argomento che non appassiona certo le masse. Faccio un solo esempio: le assemblee elettive hanno competenza, come detto, su alcuni atti fondamentali per la vita delle amministrazioni, quali, in primis, il bilancio di previsione. Inutile ricordare che, senza l’approvazione di quel documento economico-finanziario, il presidente o il sindaco non possono spendere, non possono scegliere come investire, non possono, insomma, decidere.

Ma cosa accade, davvero, quando il bilancio previsionale arriva in aula, a Milano come altrove? Accade che la giunta (sia essa di destra o di sinistra, sia chiaro), dopo averlo predisposto, di fatto lo blinda, sollecitando la sua maggioranza a non modificarlo se non marginalmente. E l’opposizione, in questo contesto, è costretta di norma a cautelarsi, presentando una caterva di emendamenti, per poi eventualmente ritirarli, una volta raggiunto un accordo politico con l’esecutivo e la sua maggioranza. Così, l’assemblea elettiva diventa un palcoscenico, in cui ognuno recita un ruolo stando abbastanza attento a non uscire dal copione. Diverso sarebbe, per esempio, se la legge imponesse che il bilancio (come la stessa UPI prospettò, a suo tempo) fosse predisposto dalla giunta insieme all’assemblea. Anche se, certo, si tratterebbe di un percorso non facile, soprattutto rispetto all’esigenza di fare sintesi delle varie istanze. Insomma, l’obiettivo è quello di ridefinire un sistema che impedisca che l’assemblea sia, di fatto, sostanzialmente chiamata, semplicemente, a prendere atto, a ratificare, anziché votare, gli stessi atti fondamentali, siano essi, appunto, il bilancio, o altro.

 

Vincenzo Ortolina


 



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