18 gennaio 2010

LIBERTÀ E URBANISTICA. DEREGULATION O RELIGIO CIVILE?


La realtà restituita dall’assessore allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano nell’intervista rilasciata a Luca Beltrami Gadola per Arcipelagomilano è tutta in bianco e nero, senza sfumature. Per Carlo Masseroli pubblico è sinonimo d’inefficienza e degrado, privato è sempre e comunque dinamismo e positività. Basterebbe un minimo di familiarità con la materia di cui è chiamato a occuparsi – l’assetto urbanistico della città di Milano – per rendersi conto che le cose stanno diversamente. Per rimanere al novecento, sul fronte del fare città i fallimenti non sono prerogativa esclusiva del pubblico, così come i successi non lo sono del privato.

Masseroli liquida la vicenda dei quartieri d’iniziativa pubblica come del tutto negativa, quando invece ci sono realizzazioni in larga parte riuscite e di forte tenuta (basti pensare al QT8 e al quartiere Feltre, esperienze apprezzate e studiate in Italia e all’estero). E se, per contro, in altri quartieri si sono manifestate forme di degrado fisico e di ghettizzazione sociale, ciò è imputabile a ‘difetti’ d’impostazione (come dimenticare la deportazione dei ceti popolari operata dal fascismo?), ma anche ad altro. Essenzialmente al fatto che l’amministrazione della città non è intervenuta per tempo con recuperi, innesti e sostituzioni (come solo da qualche anno si va facendo con i contratti di quartiere).

Anche sul fronte dell’iniziativa privata il quadro milanese degli ultimi decenni non dà ragione all’assessore. Ci sono parti della città – si pensi al tessuto misto lungo la via Tortona – ottimamente recuperate grazie a operatori privati e che costituiscono una risorsa per l’economia urbana e per la vita civile. Ma ci sono anche diverse realizzazioni a cui corrispondono tante occasioni mancate: l’ex Maserati, l’ex OM, la Bicocca, per fermarci alle maggiori. Realtà che parlano da sole e che nell’insieme testimoniano di un’amara verità: Milano ha fin qui perso l’aggancio a un importante movimento che, da oltre trent’anni caratterizza la più qualificata scena europea e che va sotto il nome di Rinascimento urbano.

 

L’impostazione che sorregge la proposta del PGT di Milano è coerente con il bilancio così sbrigativamente tracciato dall’ingegner Masseroli. È solo lasciando libero campo agli operatori privati – egli sostiene – che si può raggiungere il grande obiettivo strategico che tutti gli altri ordina e illumina: la possibilità per i cittadini di poter scegliere dove andare a vivere (non a caso lo slogan posto in capo all’operazione è «Milano per scelta»).

L’assessore allo Sviluppo del Territorio si descrive come protagonista di una svolta. Come dargli torto? Tra gli obiettivi del PGT da lui promosso vi è quello di incrementare la popolazione di Milano di diverse centinaia di migliaia di abitanti (700.000 secondo i suoi primi annunci, 489.441 secondo il Documento di piano). Se alle prospezioni dovessero seguire i fatti, egli troverebbe posto a fianco di figure come quella del Barone Haussmann, che ha fatto di Parigi la capitale del XIX secolo, o di Édouard Herriot, il sindaco socialista di Lione che si è avvalso dell’opera di Tony Garnier per riqualificare la sua città. Anche se, nell’ideale galleria di chi ha rilanciato la vicenda urbana in età contemporanea, non c’è nessuno che si sia mai spinto fin là dove Masseroli ambisce di arrivare.

Da dove verrebbe infatti quel mezzo milione di nuovi abitanti di Milano? A meno che non si tratti di un’immigrazione senza precedenti (gli stessi Longobardi erano solo qualche decina di migliaia), o che non si verifichi un’invasione di alieni, quegli abitanti non potranno che venire dall’hinterland, ossia dalla periferia metropolitana in cui la rendita li ha cacciati (decisamente esigua è la componente che se n’è andata per libera scelta). E, se si vuole fare sul serio, occorrerebbe una politica della casa popolare – pardon, di social housing – da fare impallidire quella della Vienna Rossa o le sagge politiche di governo del territorio e della casa da cui i paesi scandinavi non si sono mai discostati. In altri termini, l’inversione radicale di una tendenza insediativa come quella che, dai primi anni settanta a oggi, ha svuotato Milano di oltre mezzo milione di abitanti sarebbe possibile solo se si sovvertissero ab imis le regole della rendita immobiliare. Siamo dunque alle soglie di una rivoluzione senza precedenti?

 

Purtroppo la realtà è ben altra. L’idea, o meglio l’ideuzza, su cui Masseroli e la giunta Moratti scommettono è questa: se il pranzo del padrone è luculliano alla fine ci sarà trippa anche per i gatti. Saziati a dovere i vari immobiliaristi che tengono in pugno le aree pregiate e non, trovato spazio per i capitali rientrati con lo scudo fiscale e per i fondi pensione americani, e così per quelli della mafia, grazie a un’abbondante offerta di aree e con indici edificatori generosi si creeranno spazi anche per le cooperative (di vario colore).

Niente male per chi contesta l’impostazione quantitativa di un’urbanistica basata sugli standard. Ciò che mancava a questa urbanistica non è il fatto che essa avrebbe osteggiato l’iniziativa privata, come sostiene il Nostro: a fare difetto, in molti casi, era un’idea di città: linee guida e chiari indirizzi di disegno urbano. È questo limite della cultura dei tecnici e degli amministratori che va superato. Ma non è certo facendo saltare il banco, cioè ritornando alla non pianificazione degli anni cinquanta, che si otterrà un salto di qualità.

Fare città è un’arte difficile che comporta come prima cosa un’idea di convivenza civile e la consapevolezza che ogni scelta sugli assetti fisici può favorirla o osteggiarla. È del sapere e della comune esperienza attorno a tali questioni che si nutre il piano urbanistico. C’è nel PGT in discussione un’indubbia attenzione alle infrastrutture (la rete delle metropolitane; ma anche il tunnel Linate-Rho Fiera, un’opera demenziale che avrà effetti devastanti su importanti spazi pubblici urbani). Ma bastano le reti tecnologiche a fare città? No: occorre dare vita a un’armatura di servizi e di spazi pubblici di relazione. Di ciò il PGT si occupa poco e male. Né una simile strategia è mai entrata nell’agenda degli immobiliaristi. Pensare, poi, che essa possa essere conquistata in una contrattazione di rimessa, caso per caso, fa torto all’intelligenza di chi indica questa scelta come linea programmatica.

È da una rete forte della socialità che dipende anche il problema della sicurezza. Ma, evidentemente, chi ha oggi la responsabilità di governare l’ex capitale morale preferisce vivere di rendita sulla paura invece che dare corpo a un religio civile. La storia della città lo dimostra: la libertà non viene dal vivere “dissoluti” (Giambattista Vico) ma dai vincoli civili liberamente scelti e perseguiti.

Giancarlo Consonni



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