12 settembre 2017

FIN CHE MILANO VA LASCIALA ANDARE

Agenda al futuro


L’ultima parte del 2017 non sarà banale per Milano. L’atmosfera che si è respirata nella prima parte dell’anno – dopo Expo la città ha ripreso a correre – si è un poco spenta, poco per fortuna ma è un segnale. Quest’atmosfera è la percezione che in molti settori di attività milanesi fosse in atto un trend di crescita, crescita non solo percepita ma confermata da dati quantitativi e anche qualitativi.

01editoriale29FBDetto questo credo che si debbano accogliere le raccomandazioni che Gentiloni e Padoan ripetono in maniera quasi ossessiva: la ripresa c’è ma è fragile, non pensiamo di essere a cavallo, non facciamoci illusioni. Sotto traccia si legge la raccomandazione a non lasciarsi andare al clima elettorale attribuendosi meriti per problemi risolti che risolti ancora non sono. A queste raccomandazioni si accompagna sempre una precisa indicazione: il problema del lavoro, dell’aumento dell’occupazione, giovanile in particolare, è il vero grande problema perché senza lavoro non c’è crescita né di reddito né di consumi né di gettito fiscale, non c’è pace sociale, non si può chiudere la drammatica forbice tra poveri e ricchi.

Allora “fin che Milano va, lasciala andare” (Copyright Orietta Berti)? Certo ma non a caso e tenendo presenti le raccomandazioni di Gentiloni e Padoan, riflettendo e mirando all’occupazione, senza indulgere a rassicuranti racconti autoreferenziali.

Ormai tra gli economisti è opinione consolidata che le grandi città siano il principale motore dell’economia mondiale, anche senza più essere il principale luogo fisico della produzione manifatturiera, e non per nulla alcune città europee hanno costituito una rete per scambiare cultura di sviluppo e buone pratiche: Milano è un nodo di questa rete.

L’essere luogo motore dello sviluppo economico del proprio Paese comporta responsabilità che vanno di là da quello che potremmo rozzamente definire “egoismo metropolitano”, ossia l’esclusiva attenzione al benessere della propria collettività, magari sull’onda del miope vento autonomista.

La corsa di Milano va dunque gestita prima di tutto analizzando attentamente i dati di realtà per capire su quali settori di attività questa “spinta” si sia esercitata e con quali effetti, ragionando attentamente per distinguere gli effetti strutturali da quelli congiunturali e valutando gli attori in campo.

Un esempio, solo per uscire dal vago: il turismo. I dati sul turismo a Milano sono tutti positivi con la novità di Airbnb, la società a scala mondiale dell’affitto in condivisione. Quanto dell’incremento del turismo è dovuto al riflusso di quello internazionale per le vicende belliche e di terrorismo? Quanto all’effetto Expo? Quanto alla migliorata offerta culturale? Quanto alla saturazione di altre mete turistiche italiane come Venezia o Firenze, ormai all’overbooking permanente? E di tutto di questo quanto è ormai strutturale e quanto congiunturale?

Come e in che modo è possibile trasformare fenomeni congiunturali in strutturali? Questo non solo nel caso del turismo ma in tutti i settori di attività locali che sono cresciuti, magari per fattori esogeni – il trascinamento dell’economia mondiale ed europea – o endogeni, quali la migliorata competitività o l’aumento di produttività.

Prendere atto dell’esistenza di questa “spinta” vuol dire anche guardarla come occasione di soddisfazione dei bisogni locali della collettività milanese senza scadere, come ho detto, nell’egoismo metropolitano ma avviando un’analisi dei bisogni che non sembra ancora aver trovato spazio reale nelle attività amministrative più recenti, dalla gestione del problema Scali all’utilizzo delle aree della Piazza d’armi senza dimenticare il percorso ormai iniziato di revisione del Piano di Governo del Territorio. Dunque va cercato un equilibrio tra i bisogni locali e obbiettivi di politica generale del Paese.

Quest’analisi dei bisogni sembra essere assente dai documenti di lavoro che hanno accompagnato e accompagneranno le scelte di politica urbanistica: paiono più documenti a sostegno di scelte già fatte che non a quelli stesi per orientare le scelte stesse, documenti probabilmente poco letti e per questo inutili sul piano della discussione diffusa.

Non deve essere così.

Luca Beltrami Gadola



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