28 giugno 2017

BEPPE SALA E LA GRANDE AMAREZZA

Nessuno canti vittoria: le responsabilità sono collettive


Le recenti vicende giudiziarie del sindaco Beppe Sala sono amare per lui, per Milano e per alcuni di noi. Amare perché rappresentano un insieme di sconfitte che riguardano molti dei grandi problemi del nostro tempo e del nostro Paese. Spero che nessuno dei suoi avversari politici si rallegri, perché la “vittoria” in politica non passa per le disavventure personali dei propri avversari, ma solo per il prevalere democratico delle proprie idee.

01editoriale24FBLa vicenda giudiziaria avrà il suo percorso e, comunque vada a finire, non sarà fatta giustizia né nei confronti dell’imputato né nei confronti del Paese, perché sarà solo un modo di voltare la testa dall’altra parte. Se Beppe Sala sarà condannato molti diranno, come Piero Bassetti sulla Repubblica di domenica scorsa, che in Italia con la legislazione vigente è difficile se non impossibile amministrare senza incorrere nel rischio di commettere reati.

A Piero Bassetti che è in politica da quando aveva i pantaloni corti e non certo nelle retrovie, domando perché la classe politica abbia assistito imperturbabile al formarsi di un corpus di leggi tortuoso, distante dai bisogni del Paese, demagogico nel suo illusorio modo di perseguire i reati di corruzione, nato nelle torbide stanze delle segreterie giuridiche dei ministeri, non immuni dalle pressioni delle peggiori lobby o, più benevolmente, in preda al raptus del legiferare pensando più alla forma che alla sostanza.

Il “teorema Bassetti” sull’impossibilità di gestire la cosa pubblica senza incorrere nei rigori di “questa” Giustizia era noto a tutti, se ne parlava anche nei talk show televisivi. Allora perché il Pd candidò Beppe Sala a sindaco, un candidato a rischio e per di più mentre già alcune ombre si allungavano? Alcuni nomi erano circolati ma prevalse il disegno di cavalcare un successo che con la “politica” non aveva alcun rapporto: in Italia la sinistra se vuol fare politica non può candidare un attore come Regan o un manager di successo come Berlusconi. (Ci stanno riprovando e Renzi sino a ieri ha dato una mano).

Il vero addebito che si può imputare a Sala è di “culpa in vigilando”, ossia la colpa sottostante alla responsabilità per il fatto illecito altrui, che viene attribuita a coloro che sono tenuti alla sorveglianza di determinate persone, in particolare ai propri sottoposti o collaboratori.

Ma se li è scelti lui i collaboratori? Il governatore Formigoni non ha forse premuto perché la direzione tecnica fosse affidata al direttore generale di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni, direttore già allora di una società della Regione a dir poco chiacchierata?

Il Comune di Milano non poteva opporsi a una designazione del genere? Beppe Sala non era un marziano calato a Milano, è stato Direttore generale del Comune di Milano per il biennio2009 -2010, era uomo di mondo: possibile che non sapesse di che pasta erano fatti alcuni dei suoi collaboratori con i quali aveva già collaborato?

Se questa scelta non fu libera ma ossequiosa alle pressioni dei Partiti milanesi e romani, purtroppo Sala ne paga le conseguenze e insieme con lui l’immagine di Milano e di Expo. Ma non sono solo Piero Bassetti e la sua generazione di politici a portare la responsabilità, quella di aver lasciato crescere un bubbone legislativo, ma una responsabilità la portano anche i giovani come il ministro Martina – delegato dal Governo a Expo dal 2015 – ma dal 2009 consigliere regionale fino alla recente nomina a Ministro dell’Agricoltura. Dove stavano lui e l‘opposizione tutta mentre Infrastrutture Lombarde si faceva i fatti suoi? Tutti zitti all’insegna del consociativismo regionale?

L’ultima amarezza è vedere in difficoltà Sala proprio ora che siamo alle battute finali della vicenda scali, una vicenda essenzialmente politica ancor prima che urbanistica. Se il principale contendente combatte con una mano legata dietro la schiena tutto è falsato. Si discuterà sulla sua gestione dei conti di Expo, dell’infelice scelta degli uomini della sua squadra, delle ombre sugli appalti e non della sua gestione dei cruciali problemi di Milano: scali e aree post Expo.

Mi dispiace perché il dibattito sui “padroni della città” è ancora aperto e questo dibattito è il “padre” di tutti i dibattiti: un dibattito sulla democrazia deliberativa.

La democrazia deliberativa, sulla quale insisto come antidoto alla disaffezione della gente alla politica, i risultati recentissimi mi danno ragione, non può soccombere alla visione di un’anchilosata democrazia rappresentativa fatta ormai di vassalli, valvassini e valvassori: il medioevo della democrazia.

Luca Beltrami Gadola



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