31 maggio 2017

sipario – UNA LIBERTÀ RITROVATA SUL PALCOSCENICO


Qualche numero fa di Sipario – dietro le quinte scrivevo dell’attività della Cooperativa Sociale E.s.t.i.a. all’interno delle carceri milanesi e del teatro come strumento di libertà e riabilitazione sociale dei detenuti.

sipario20FBAll’indomani dello straordinario successo della nuova produzione Ormai, presentata al pubblico in forma di studio all’interno del Teatro In-Stabile del carcere di Bollate, ho avuto il piacere di incontrare Carlo Bussetti, ex detenuto e oggi teatrante professionista, uno dei più impegnati interpreti dell’attività di Opera Liquida e cofondatore della Compagnia Corpi Bollati, che partendo dalla sua diretta esperienza del carcere e del teatro (in particolare con l’interpretazione di una Fata Turchina decisamente sui generis nella reinterpretazione di Pinocchio), mi ha raccontato come la recitazione possa davvero cambiare la vita di chi lo pratica e di chi lo osserva.

Iniziamo dal principio: quali sono le caratteristiche peculiari di Teatro In-Stabile?

Innanzitutto, paradossalmente, pur trattandosi di uno spazio all’interno del carcere, è un luogo molto più “libero” rispetto ai teatri tradizionali: è un ambiente “aperto”, pensato come occasione d’incontro, contatto e partecipazione. Ai laboratori può prendere parte chiunque (detenuti e pubblico esterno), e al termine degli spettacoli messi in scena dalla compagnia è sempre previsto che gli attori si intrattengano a chiacchierare con gli spettatori in platea. Durante le “Cene Galeotte” questo aspetto diventa anzi essenziale, e l’intrattenimento si basa proprio sull’interazione tra gli ospiti seduti ai tavoli e i camerieri-attori che tra essi si muovono.

In questo modo il teatro nel carcere diviene un punto di contatto tra mondo di “dentro” e mondo di “fuori” (in senso fisico e psicologico); un’occasione per conoscere e scambiare idee, pensieri, sentimenti “diversi” da quelli che trovano espressione nel contesto della detenzione, e allo stesso tempo per scardinare i pregiudizi sulla realtà carceraria.

Cosa spinge i detenuti ad avvicinarsi al teatro e a sperimentare la recitazione durante la loro permanenza in carcere?

Di solito l’esperienza della recitazione inizia come un gioco, un modo per divertirsi, “evadere” con la mente, un pretesto per restare più a lungo fuori dalla cella e un’occasione per incontrare il pubblico (anche femminile) che viene dal mondo “di fuori”. Poi gradualmente alcuni si appassionano, scoprono che la recitazione offre loro un nuovo modo di esprimersi, di approfondire aspetti di se stessi fino ad allora ignorati o costretti dietro la maschera della delinquenza e del suo “codice” di comportamento.

L’esperienza del teatro consente ai detenuti entrare in contatto con aspetti della propria personalità su cui non avevano mai avuto modo di soffermarsi durante la loro vita “sregolata”, e di scoprire che “regole” e “disciplina” (necessarie per far funzionare uno spettacolo, dal rispettare degli orari, all’impegnarsi nelle prove, all’imparare le battute, etc.) non sono necessariamente delle “costrizioni”, ma dei modi diversi di vivere, capaci di dare un appagamento inimmaginabile.

Ovviamente, non per tutti funziona in questo modo: alcuni dopo un po’ abbandonano, altri scoprono di avere un vero e proprio talento; molti continuano a recitare anche finita la detenzione, e questo li tiene lontani dall’intraprendere nuovamente strade sbagliate. È come se la recitazione riuscisse a dare quel “brivido adrenalinico” di cui tutti hanno bisogno nella vita, consentendo però di non doverlo cercare commettendo reati.

Qual è l’atteggiamento del pubblico nei confronti delle vostre performance? Quali sono le sue reazioni?

Il pubblico spesso si approccia al nostro teatro per curiosità, perché attratto dall’idea di per vivere un’esperienza originale e alternativa, per entrare in una dimensione estranea rispetto alla loro quotidianità e per verificare se davvero c’è posto per l’arte, la passione e la libertà espressiva anche in un luogo che ha proprio nella sospensione della libertà la sua connotazione principale. Si tratta insomma di un pubblico scettico, ma che immancabilmente a un certo punto dello spettacolo dimentica di essere in un carcere, abbandonandosi alla situazione rappresentata e alle capacità performative dei suoi interpreti. Questo perché il livello di bravura da essi raggiunto rende il contesto del tutto secondario: nel momento in cui si alza il sipario, gli attori smettono di essere dei detenuti e lo spettacolo non è più “teatro in carcere” ma solo “arte”.

Qual è il ruolo del corpo e della fisicità?

Il teatro e la detenzione hanno in comune il fatto di stimolare un nuovo approccio alla fisicità e alla percezione dello spazio. In modi diversi, entrambi consentono di prendere coscienza delle possibilità espressive implicate nella corporeità: un aspetto che generalmente viene dato per scontato, ma che diventa determinante quando si è costretti a vivere in una cella di tre metri per cinque, lontano dagli occhi del mondo e dunque “invisibili”.

La recitazione offre una nuova “libertà di movimento”, permette di affermare una libertà alternativa a quella puramente spaziale e di sperimentare una nuova forma di espressione, che prescinde dalle differenze linguistiche o dalla capacità di tradurre in parole pensieri e concetti. Quello del corpo è il linguaggio più democratico, immediato e ricco di possibilità che esista.

Cosa colpisce maggiormente i partecipanti ai laboratori attivati nel carcere?

Poco fa accennavo ai pregiudizi e agli stereotipi che inevitabilmente permeano la concezione della realtà carceraria da parte di chi non la conosce. Mettendo direttamente in contatto i partecipanti esterni con i detenuti, i laboratori abbattono queste barriere e permettono a chi viene da fuori di constatare quanta “umanità” ci sia all’interno di un ambiente generalmente considerato arido e sterile.

Tutti si stupiscono rendendosi conto che il nostro teatro non è “finzione”, ma rappresentazione di una realtà talvolta molto più “vera” di quella messa in scena dal teatro istituzionale, perché non è frutto di invenzione ma nasce da esperienze drammatiche, e si alimenta del bisogno di elaborare il passato, trovare una forma di riscatto nel presente e pensare a un futuro possibile.

Chiara Di Paola

questa rubrica è a cura di Domenico G. Muscianisi e di Chiara Di Paola

rubriche@arcipelagomilano.org



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