11 gennaio 2010

UNA FINANZIARIA DI FUMO E PROMESSE


Niente IRAP ridotta per i piccoli imprenditori. Niente cedolare secca per affitti e case in proprietà affittate (una paradossale sperimentazione solo a L’Aquila!). Niente Irpef in riduzione per i redditi bassi, per sostenere il mercato interno, come dimostrano i dati delle vendite al dettaglio del mese di dicembre sensibilmente calate. La legge finanziaria vale 8 miliardi e 800 milioni di euro. Il doppio di com’era entrata al Senato a inizio ottobre. E soprattutto un po’ ammaccata dalla pressione dei vari ministri di spesa, Pubblica Amministrazione compresa.

Eppure sarebbe dovuta essere una legge finanziaria solo tabellare, cioè senza provvedimenti di spesa per lo sviluppo, ma secondo Tremonti solo di riproposizione della legislazione vigente, giacché la manovra vera era stata anticipata a fine luglio.

I tagli sono stati operati copiosamente a luglio infatti, spesso per coprire spese obbligate dalla crisi, come l’aumento della cig e degli ammortizzatori sociali benchè al di sotto della necessità; ma anche per coprire con correzioni di bilancio l’aumento vertiginoso di oltre l’8% della spesa ordinaria corrente della pubblica amministrazione centrale, verso il comportamento della quale non hanno avuto effetto alcuno i tagli lineari uguali per tutti, senza selezionare dove risparmiare e dove invece premiare e incentivare spese utili.

In compenso già in prima lettura al Senato e poi nel testo licenziato con la fiducia alla Camera ora ci sono centinaia di milioni di euro che coprono interventi microsettoriali e localistici!

Si può dire sia diventata una finanziaria un po’ clientelare. Ma solo per la maggioranza di centrodestra, visto che nemmeno su singoli parziali provvedimenti all’opposizione è stata fatta toccare palla. Nessun emendamento è stato votato in commissione bilancio né in aula sul secondo e terzo articolo, poi diventato secondo unificato grazie al maxiemendamento del relatore di centrodestra che ha ricompreso gli emendamenti del governo e della maggioranza. Così per portarla in aula è bastato alla maggioranza un solo voto comprensivo di tutte le modifiche pari a oltre 4 miliardi di euro.

Di strano c’è che non si riduce l’Irpef sui salari e gli stipendi, ma si detassano straordinari e produttività, prevedendo per ciò 800 milioni di euro di spesa!Come per la social card questi soldi non si spenderanno, o si spenderanno solo in parte. In un periodo di crisi è ben difficile prevedere un’impennata di straodinari e produttività di tale portata.

Tutto il resto è fumo: giri di fondi già stanziati che cambiano dislocazione e si spostano dal FAS per il mezzogiorno e dalle infrastrutture all’edilizia carceraria, alle scuole (300 milioni), all’ambiente (1 miliardo), alla ricerca (200 milioni).Cioè, dopo aver tagliato a carceri, scuole, ambiente e ricerca, ora gli si rigira qualche centinaia di milioni, che vengono sottratti al Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) destinato al mezzogiorno per lo più e alle infrastrutture previste da leggi per le quali il Cipe dovrebbe provvedere.

Con lo Scudo fiscale (3,8 miliardi di euro di entrate previste) si finanziano le missioni internazionali (800 milioni), il 5 per mille del 2007, il fondo di solidarietà all’agricoltura, i libri di testo. Anche all’Università si danno 400 milioni, meno di quelli già tagliati!

Poi c’è l’uso improprio del TFR per fini di spesa corrente (non per investimenti come fece il governo di centrosinistra).

Si sarebbe dovuto invece sostenere i redditi, a cominciare dai più bassi. Estendere gli ammortizzatori sociali anche ai non garantiti, finaziare le PMI e le aziende artigianali, non solo le banche. Sostenere la politica abitativa e della casa. Per fare politiche anticicliche e non procicliche di assecondamento della crisi.

Il governo ha perso un’altra occasione per invertire la tendenza ad accompagnare la crisi come sta facendo da un anno a questa parte, con il rischio che quando se ne uscirà non sarà in piedi nessuna politica pubblica di medio periodo alla quale affidare il rilancio dell’economia italiana e delle sue parti migliori e più competitive, ma si sarà lasciato operare il mercato e i suoi fallimenti in modo spontaneo e devastante per tante parti della nostra manifattura, del made in Italy, del sistema industriale e dei servizi del Bel Paese.

In questa situazione lo scontro Fini/Berlusconi, la silenziosa rivolta antitremontiana, la sofferenza di alcune parti del centrodestra come la Lega per il Patto interno che penalizza fortemente i Comuni, ha fatto propendere per la fiducia.

Un altro colpo al Parlamento, alla faccia delle riforme condivise. Non c’era proprio bisogno di porre la fiducia, visto che l’opposizione aveva presentato solo 53 emendamenti (cosa mai verificatasi nella storia della Repubblica!Sarebbero bastati due giorni di dibattito e di votazioni in aula per licenziare definitivamente la finanziaria con il voto conclusivo nello stesso giorno in cui si è votata la fiducia.

Ma il governo non ha voluto rischiare di essere impallinato dalla sua stessa maggioranza in subbuglio.

Quel che è accaduto dopo (dall’aggressione di Tartaglia a Berlusconi in piazza Duomo a Milano in poi) è da valutare anche alla luce del comportamento del governo nel primo anno e mezzo di legislatura (27 fiducie, una marea di decreti legge un continuo di leggi ad personam).

Fidarsi è bene. Non fidarsi è meglio. Senza carte scoperte sul tavolo delle riforme istituzionali e della Costituzione si potrebbe solo restare fermi al campo delle cento pertiche.

Con la logica dello scambio non si va da nessuna parte e Berlusconi intascherebbe i suoi legittimi impedimenti, i suoi lodi, la sua riforma della giustizia, colpevolizzando l’opposizione non volere fare le riforme (quelle che nessuna opposizione al mondo potrebbe ingoiare).

Se riforme devono essere si facciano dentro un accordo generale in cui la maggioranza non può dettarne la lettera e soprattutto l’opposizione non si accontenti di scambiare pessime riforme istituzionali con una legge elettorale proporzionale. Il faro deve restare il sistema maggioritario per esprimere da parte del popolo rappresentanza e governo.

Mi pare che da questi tre mesi (quelli della sessione di bilancio) possiamo trarre una buona lezione, prima di farci affascinare da scenari la cui prospettiva potrebbe essere solo quella di infilarsi in un cul de sac.

Il clima deve cambiare: è un’esigenza della democrazia. Ha ragione il presidente Napolitano. Ma è assurdo possa cambiare a solo discapito dell’opposizione. Come la guerra anche la pace si fa in due, non è mai unilaterale. Diversamente si chiamerebbe resa.

Erminio Quartiani



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