15 marzo 2017

BRIGITTE BARDOT E IL CONGRESSO MILANESE DEL PD

Il vero congresso si farà sulla legge elettorale


Nella storia dei partiti della sinistra i congressi sono i momenti centrali dell’elaborazione della linea politica e della scelta delle leadership. Alcuni di questi congressi sanciscono cambiamenti storici e addirittura epocali. Senza ricordare Bad Godesberg, Epinay, Suresnes o Livorno, il prossimo congresso del PD, nel suo piccolo, avrà un importanza nettamente superiore ai precedenti, perché in qualche modo dovrebbe sancire una definitiva cesura della continuità ideale con il “veniamo da lontano e andiamo lontano”, dovrebbe definire la misura del consenso sulla linea, quella della collaborazione al centro e dell’argine unitario (nel senso di unità nazionale) al populismo, ben illustrata da Franceschini al Lingotto, che gli appare l’unica realisticamente applicabile in clima di proporzionale – ma non solo, se pensate a Macron – che confligge, però, con la necessità di fare il pieno dei voti alle primarie tra quel popolo di sinistra che rifiuta di prendere atto che senza Alfano, Formigoni e Lupi non ci sarebbe stato il governo Renzi e neppure Gentiloni.

02marossi10FBTuttavia il congresso, oltre a questo profilo “alto” serve anche per stabilire nuove gerarchie a tutti i livelli, per misurare il grado di popolarità dei gruppi dirigenti, per rottamare vecchie figure ma anche per rottamare giovani rottamatori, per insediare nuove leadership: ridefinisce in sostanza la geografia del partito. Anche a Milano.

Tecnicamente la conta avverrà in più stadi:

a) Il primo è quello degli iscritti, chiamati a scegliere nelle riunioni di circolo che si terranno dal 20 marzo al 2 aprile i delegati alle convenzioni provinciali (5 aprile) e da queste a quella nazionale (9 aprile); per l’elezione dei delegati è ammessa la presentazione di una sola lista per ogni candidato a Segretario, conseguentemente si avrà una prima definizione dei pesi interni. Nella sua composizione, ciascuna lista deve rispettare il principio dell’alternanza di genere. Il compito della convenzione nazionale, come recita l’articolo 9 comma 6 dello statuto, è quello di ammettere “all’elezione del Segretario nazionale i tre candidati che abbiano ottenuto il consenso del maggior numero di iscritti purché abbiano ottenuto almeno il cinque per cento dei voti validamente espressi e, in ogni caso, quelli che abbiano ottenuto almeno il quindici per cento dei voti validamente espressi e la medesima percentuale in almeno cinque regioni o province autonome.”

Visto che i candidati sono già tre non si capisce bene perché tenere queste riunioni, tuttavia questa votazione darà indicazione sia del grado di consenso dei leader nazionali nel corpo degli attivisti, sia del peso dei vari circoli rispetto alla provincia e delle varie provincie rispetto alla regione. Lo straordinario successo della campagna di tesseramento delle scorse settimane ha questa semplice motivazione: più tessere abbiamo più contiamo.

b) Per non essere prigionieri del responso degli iscritti (di cui palesemente ci si fida poco visto che anche in passato hanno dato risultati diversi da quelli delle primarie aperte, nel 2013 Renzi ottenne il 45% tra gli iscritti e il 67 % alle primarie) la fase delle convenzioni è solo propedeutica alle vere elezioni, quelle primarie che si svolgeranno il 30 aprile e che eleggeranno l’assemblea nazionale e il segretario (sempreché uno dei candidati ottenga la maggioranza assoluta, viceversa i due meglio piazzati si misureranno tra i membri dell’assemblea.)

In questo caso si voterà sulla base di Collegi e diversamente dalle elezioni tra gli iscritti il regolamento recita: “può essere presentata una o più liste collegate a ciascun candidato alla Segreteria. Sono ammesse le liste presenti in almeno la metà dei Collegi di una Circoscrizione regionale. Le liste devono essere sottoscritte da almeno 50 iscritti in ciascun Collegio”. In pratica è il trionfo del correntismo, infatti dirigenti locali in contrasto tra loro o facenti riferimento a correnti nazionali possono misurarsi attraverso la presentazione di liste ancorché collegate allo stesso candidato segretario – come del resto già avvenne in Lombardia nel 2007 quando ci furono due liste veltroniane. Unico freno: “l’accettazione del collegamento da parte del candidato alla Segreteria nazionale”. Le liste vanno presentate entro il 10 aprile, entro quella data la geografia delle appartenenze correntizie comincerà a essere chiara.

Politicamente la conta segue rituali e fasi antiche, rimanda un po’ a canovacci predeterminati come quelli della commedia dell’arte con relative maschere.

La prima fase è il riposizionamento. Alleanze e adesioni date per scontate si volatilizzano in pochi attimi. Veloce come un fulmine il sindaco di Milano ad esempio ha voluto chiarire che lui è autonomo e non ha alcuna forma di sudditanza verso gli equilibri romani, anche se il suo principale mentore è in ticket con Renzi per la segreteria.

Non si creda che la neutralità di Sala dipenda dall’alto numero di consiglieri comunali che fanno riferimento a Orlando – nessun consigliere dotato di buon senso vuole indebolire la giunta per ragioni congressuali. Dipende piuttosto dalla convinzione, comune a quasi tutti i sindaci PD in carica, che il loro essere eletti monocraticamente li renda autorevoli e autonomi rispetto a equilibri nazionali governativi attuali e futuri che poggiano e poggeranno sul proporzionalismo. Il segretario nazionale viene concepito non più come l’indiscusso leader maximo quanto piuttosto come un presidente federale, tanto più che si può dare per scontato un futuro di maggioranze variabili – o giunte anomale che dir si voglia – sia a livello comunale che regionale.

Ma se Sala è il sindaco e quindi non è opportuno criticarlo, reazioni astiose sono generate dal riposizionamento delle seconde e terze file. Così avendo chiesto come mai un consigliere comunale di antica fede renziana fosse diventato il coordinatore di Emiliano, dagli ex sodali ho ottenuto tre risposte: 1) è un arrampicatore sociale, 2) non potevamo dargli il posto che voleva, 3) è terrone (sic); nessuna delle quali mi è sembrata improntata al sereno confronto politico invocato al Lingotto. Del resto continuano gli effetti generati dalla scissione di poche settimane fa, tanto che per Onorio Rosati sembra di capire c’è una sola opzione: o il suo candidato vince oppure bisogna andarsene. Anche in questo caso mi pare esserci scarsa sportività.

Il nervosismo è aumentato dal fatto che nessuno sa con quale legge elettorale si eleggeranno Camera e Senato e che gli ultimi risultati di una conta interna, quelli per l’elezione di Bussolati – Pietro Bussolati 33,52% (2611), Arianna Cavicchioli 30,12% (2346), David Gentili 19,69% (1534), Arianna Censi 16,66% (1298) – appartengono alla preistoria e non danno chiare indicazioni.

Accanto al riposizionamento, un altro rituale è quello del richiamo in servizio dei riservisti, quegli stessi che dovevano essere rottamati, perché i voti congressuali si contano uno per uno ed è meglio avere a che fare con solidi professionisti piuttosto che con volitivi giovanotti/e. Ed ecco che la convention milanese dei renziani è aperta da Marilena Adamo, che Barbara Pollastrini viene nominata presidente del comitato elettorale per Andrea Orlando, che Massimo Ferlini inaugura una sezione, pardon circolo, che Filippo Penati diventa il coordinatore regionale della mozione Emiliano. Ci manca Al Bano e siamo in pieno revival da “Nostalgia Canaglia”.

Altro rituale è quello che possiamo riassumere nel morettiano “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, che si materializza nell’ondata di distinguo e di specifiche che tutti gli aspiranti parlamentari, assessori etc. esprimo rispetto alla presunta linea maggioritaria. Esemplare l’assessore Majorino, che appena al Lingotto si ribadisce che segretario e premier devono essere la stessa cosa fa sapere: “Non credo sinceramente che si possa dire che chi vince il congresso del PD poi guidi magicamente la coalizione di centrosinistra. Anche in quel caso servirebbero le primarie. E tra Renzi e Pisapia (se mai si sfidassero) io sceglierei quest’ultimo ”. Che però non scelse Majorino come successore.

É l’eterno ritorno del “ma anche” declinato nel “sto con Renzi ma anche no”, evidentemente non hanno letto Brigitte Bardot: “È meglio essere infedeli che essere fedeli senza volerlo essere.”

E con Pisapia si affaccia un altro tradizionale protagonista dei congressi: l’alleato, il fiancheggiatore, l’ascaro, il fornitore d’alibi. Colui che senza far parte del partito interviene nel dibattito interno, si propone come coprotagonista, si pone come spartiacque delle scelte. “Campo progressista” la sigla proposta dall’ex sindaco di Milano, da Tabacci e dalla Boldrini è in pratica una corrente che non presenta liste di candidati. Ma non è la sola: dall’altra parte Lupi ricorda che “non aspettiamo Godot”, mentre altri renziani di complemento – Cesa, Quagliarello e fors’anche Casini – compulsano l’agendina per ritrovare il numero di telefono di Berlusconi.

Sullo sfondo del congresso sta un altro convitato di pietra: l’ex. Non è la prima volta che chi se n’è andato in realtà sta ancora dentro, ne è la prima volta che i congressi devono guardarsi dall’entrismo – l’indimenticabile leader laburista Lansky, dedicò un libro “Il Battaglione segreto” a tale fenomeno – più banalmente basta ricordare le vicende dello PSIUP.

In questo quadro il segretario della federazione metropolitana scrive una mozione in cui ricorda: “In questa lunga fase di crisi delle organizzazioni politiche tradizionali, l’esperienza di Milano può fornire un modello di impegno nella sperimentazione di pratiche di partecipazione e mobilitazione, tra innovazione e tradizione. Uno dei punti di forza del modello Milano è la comunità di volontariato politico che si è creata intorno a valori, identità, partecipazione, obiettivi dichiarati e condivisi e nelle pratiche messe in campo, che hanno favorito un rapporto intergenerazionale virtuoso capace cioè di unire le buone pratiche della tradizione organizzativa socialcomunista e cattolica, con elementi di innovazione di linguaggio, comunicazione e tecnologia.” è in pratica un accorato appello: “abbiamo vinto tutte le ultime elezioni, non facciamoci del male da soli”.

Credo che serva a poco: il vero congresso si farà sulla legge elettorale.

 

Walter Marossi

 



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