15 marzo 2017

CITTÀ STUDI:  SI DIRÀ CHE IL TRAPIANTO È RIUSCITO MA IL DONATORE È MORTO?

Un trasloco problematico per la città. Ma chi decide?


Vorrei tornare sulla questione del trasferimento delle Facoltà della Università Statale all’area Expo e del destino di Città Studi, riguardo al conflitto tra interesse del cittadino e interesse finanziario

07origlia10FB_2Rimando alle documentate argomentazioni già pubblicate su ArcipelagoMilano prodotte dall’associazione “Che ne sarà di Città Studi?” e dal Municipio 3 per chi ne volesse sapere di più, limitandomi qui a riassumerle per sommi capi ad uso di chi ancora non le conoscesse.

L’Università Statale ha intenzione di spostare le sue numerose facoltà dislocate nel quartiere Città Studi nelle aree di Arexpo, ove creerebbe un nuovo campus universitario. Ciò tra l’altro avverrebbe in concomitanza con il trasferimento altrove dell’Istituto Tumori e del Besta, liberando così complessivamente nella zona circa 350.000 mq di edifici. Il che vuole anche dire che almeno 20.000 persone, studenti e impiegati, cesseranno di usare quei servizi diffusi in tutto il quartiere, dai mezzi di trasporto alle attività commerciali e residenziali, che ne fanno ora un quartiere ottimamente servito e vitale.

È evidente che una così massiccia dismissione, con poche o nessuna prospettiva di rioccupazione degli edifici abbandonati per gli anni a venire, produrrà con certezza un lungo periodo di gravissimo degrado per l’intero quartiere. Mentre 20.000 persone saranno trasferite in una zona molto più periferica, che per un certo tempo difficilmente garantirà loro lo stesso livello di servizi disponibili a Città Studi.

Perché tutto ciò avviene? Per quanto è riassunto nella lapidaria considerazione del Rettore della Statale: per ristrutturare le attuali sedi storiche del quartiere “Avremmo costi di circa 1.500 euro al metro quadro. L’investimento complessivo sarebbe analogo a quello necessario per il trasferimento sulle aree  Expo”.(Il Fatto Quotidiano  19 luglio 2016)

Dunque per il Consiglio di Amministrazione dell’Università è ovvio che il gioco non vale la candela, conviene abbandonare Città Studi e trasferirsi in una nuova sede sui terreni di Arexpo, così risolvendo anche parte del problema di quest’ultima: come far fruttare la sua faraonica e per ora deserta urbanizzazione.

Proprio questo è il punto. È ormai cosa arcinota e acquisita da molto tempo che il “valore” di una città o di una sua parte non è costituito solo dai suoi edifici e dalle sue infrastrutture, ma anche e soprattutto dalla linfa che dà loro un senso: la presenza di attività umane e del loro intrecciarsi in un legame di reciproca necessità e valorizzazione. Senza questa linfa edifici e infrastrutture perdono ogni valore, e il degrado si estende a tutto l’intorno. Dunque è questa linfa che conferisce il “plusvalore” anche ai beni privati, e che in buona sostanza rappresenta ciò che si può definire “bene comune”, in quanto immateriale e generale generatore di valore.

Inoltre negli ultimi decenni la capacità dell’uomo di creare artificialmente qualità urbana dovunque lo si decidesse si è dimostrata una pericolosa illusione, che a fronte di pochissimi casi felici ha generato moltissimi mostri, di cui sono piene le periferie.

E a Città Studi, che ha già sofferto per i molti vuoti lasciati dalle scelte tecnico-finanziarie dei decenni precedenti (vedi zona Rubattino – Lambrate ma non solo), ci è voluto più di mezzo secolo per creare una fitta e solida rete di attività di commercio e servizi legate alla presenza quotidiana di studenti, docenti e impiegati. Il che ne fa una zona di Milano attiva, un corpo vivo, parte sana della città .Un perfetto esempio di “bene comune”, amplificato dalla qualità della sua urbanistica ottocentesca, con molto verde, e dagli edifici di cui è composta, comprese le sedi accademiche, alcune di valore storico.

È dunque ormai diffusa la consapevolezza che per la qualità di vita in una città è importante preservarne il tessuto insediativo recuperando il più possibile sia gli edifici esistenti che la delicata sinergia di funzioni che si è nel tempo creata tra essi e con le infrastrutture circostanti più significative . Conservare e ridensificare anziché dismettere e delocalizzare, anche quando questa operazione comporta investimenti maggiori di quelli necessari per nuove edificazioni, è la base di ogni politica insediativa moderna rispettosa dell’ambiente e delle persone.

Le pressioni del Governo per dare un senso all’operazione aree ex Expo  hanno condizionato  gli organi decisionali dell’Università Statale, spingendoli a ragionare come banali operatori immobiliari: se a me conviene delocalizzare lo faccio, e del bene comune chi se ne frega.

Peccato che questo messaggio sembri arrivare  da una Università che si fregia del titolo di “Statale”, quasi considerasse privo di qualsiasi valore quello che sarebbe invece opportuno insegnare a tutti i suoi studenti, ovvero il rispetto per il bene comune.

Ma certo che una logica più virtuosa non si instaura mai se mancano indirizzi, incentivi e regole. Quindi ancora più deprimente è notare che il Comune e i suoi Municipi non mostrino alcun interesse alla questione, e non prendano posizione, colludendo di fatto con la visione opportunista di Arexpo.

Un’Amministrazione pubblica evidentemente poco interessata ad assumersi l’unico ruolo che le spetterebbe, ovvero quello di guardiano del “bene comune” nell’interesse di cittadini, non di questo o quell’imprenditore ancorché pubblico. Dunque per ora il destino di Città Studi sembra segnato. Viene da paragonare i responsabili di questo scempio annunciato a un ‘equipe di illustri chirurghi di indiscussa professionalità che si preparano a trapiantare un rene (le facoltà universitarie) da un donatore vivo (Città Studi) a un malato (Arexpo, che se no non ce la fa a riempire le sue preziose aree deserte).

Peccato che si siano dimenticati di chiedere al donatore se è d’accordo, e pronti a concludere: il trapianto è stato un successo, il paziente è vivo, sfortunatamente il donatore è morto.

 

Giorgio Origlia

 

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