8 febbraio 2017

musica – UN NUOVO QUARTETTO D’ARCHI  


 

Fra le tante cose che si possono fare a New York quando si ha il privilegio di avere molto tempo libero, la musica occupa un posto importante, con un’offerta ricca e variegata e una ampissima scelta che spazia in tutti i suoi campi: musica da camera, sinfonica, lirica, popolare, jazz, etnica – chi più ne ha più ne metta – generalmente di buon livello nonostante l’aspetto commerciale faccia sempre capolino e domini molto la scena.

musica05FBProprio per scoprire qualcosa di un po’ diverso dal solito ho ascoltato il concerto che una importante e nota Università privata – di cui taccio il nome proprio per rispetto di quella privatezza – offre settimanalmente e gratuitamente al pubblico dei suoi docenti, studenti e “patrons” nell’elegante auditorium che suppongo funga anche da aula magna. Suonava il “Verona Quartet”, composto da due violinisti di Singapore, Jonathan Ong e Dorothy Ro, dalla violista canadese Abigail Rojansky e dal violoncellista americano Warren Hagerty, tutti e quattro giovanissimi e tutti usciti dalla prestigiosa Juilliard School di New York. Nessuno di loro ha mai visitato Verona e hanno scelto il nome della città in omaggio a Shakespeare!

Ecco il programma: Quartetto in fa maggiore di Ravel e Quartetto in mi minore opera 59 numero 2 di Beethoven (uno dei tre famosi quartetti detti “Razumovsky” dal nome del committente, l’ambasciatore russo a Vienna) inframmezzati da un’opera scritta espressamente per i quattro del “Verona” dal ventinovenne – loro coetaneo e compagno di studi – Michael Gilberston, eseguita quella mattina in prima assoluta. Un programma che nei prossimi giorni sarà replicato dallo stesso quartetto alla Carnegie Hall.

Prima ancora di dar conto della qualità delle musiche ascoltate mi sembra essenziale riferire che in apertura il direttore della stagione musicale ha letto e fatto distribuire in sala il testo di una dichiarazione con la quale l’Università dichiara formalmente di opporsi all’ordine dell’esecutivo sull’immigrazione in quanto “mina gli ideali più alti dell’America e minaccia il ruolo degli Stati Uniti di leader mondiale nella scienza, nella tecnologia e nell’innovazione”; e più tardi, nel presentare il suo nuovissimo Quartetto, il giovane Gilberston ha voluto precisare che la vittoria di Trump lo ha costretto a interromperne la composizione e a riscrivere tutto daccapo avendo egli cambiato umore ed essendo mutata l’atmosfera intorno a lui!

Tutto ciò premesso, confesso che raramente ho ascoltato un Ravel tanto limpido, lucido, fluido, e un Beethoven così pulito, dolce e insieme grintoso come in questa occasione; è stata una vera gioia percepire i piani sonori dei quattro strumenti così ben diversificati e osservare il civilissimo dialogo, serrato, attento, di chi sa ascoltare i colleghi e farsi ascoltare da loro. Soprattutto la gioia di sentire lo spirito di servizio degli interpreti, tanto lontani dal virtuosismo e dall’esibizionismo e tanto presi dal piacere di suonare insieme.

Venendo a Ravel, il suo unico Quartetto è dedicato al venerato maestro Gabriel Fauré, di trent’anni più vecchio di lui, il quale pretendeva che l’allievo vi apportasse modifiche importanti, soprattutto in quell’ultimo tempo dal ritmo incalzante ed elettrizzante; per fortuna Ravel, incoraggiato dall’amico Debussy anch’egli più vecchio ma di soli tredici anni, si oppose al maestro e lasciò che l’opera fosse pubblicata nella versione originale. È stato scritto fra il 1902 e il 1903 e deve molto a quello di Debussy, di dieci anni prima, rispetto al quale però innova di più e più profondamente la forma classica del quartetto d’archi puntando le antenne sul secolo appena iniziato. La grande dolcezza dei temi che si rincorrono lungo i quattro movimenti, anche in quelli stretti e ritmati come il secondo (Assez vif, très rythmè) e il quarto (Vif et agité), si manifesta soprattutto nel terzo movimento (Très lent) in cui la viola ha un potere ipnotico, avvolge l’ascoltatore e lo trasporta in un’atmosfera trasognata.

Con Beethoven si fa un salto indietro di un secolo (il secondo Razumovsky è del 1808) e subito si percepiscono tutte le contrapposizioni da cui è costituita la forma sonata, con i due temi che lottano per la supremazia: positivo e negativo, bene e male, ottimismo e pessimismo, cuore e ragione e così via. (Più avanti, con Schubert, i temi dialogheranno fra loro mentre più tardi, con Schumann e Mendelssohn, si intenderanno sempre meglio fino a quando, con il secolo nuovo, scompariranno del tutto). In questo quartetto al posto del classico minuetto compare una sorta di scherzo non dichiarato, basato su un “tema russo” – vedasi la forza del committente – che viene trattato come soggetto di un ricco fugato dal ritmo ternario (che lo fa apparire quasi un valzer) mentre il finale, eccitante e spumeggiante, volge curiosamente al mood tzigano.

Sia in Ravel che in Beethoven il Verona Quartet ha saputo sviscerare fino in fondo l’analisi degli spartiti facendo emergere con chiarezza le ragioni della scrittura, curando tutti i dettagli senza mai perdere il filo dell’architettura complessiva. Bravissimi.

Due parole ancora, dedicate all’opera di Gilberston. Non sono molto d’accordo nell’infilare un lavoro contemporaneo fra due capolavori classici. Innanzitutto il confronto finisce fatalmente per penalizzare il lavoro nuovo, anche se di grandissima qualità; ma quel che più conta è che classico e contemporaneo sono dedicati a due pubblici diversi, o quantomeno a due stati d’animo – e quindi a due propensioni all’ascolto – non sempre compatibili. Talvolta siamo molto interessati ad ascoltare cose nuove, talaltra desideriamo immergerci nel passato. Lo stesso vale per l’arte figurativa, per l’architettura, per la letteratura, per tutte le arti. E la musica non fa eccezione.

Ma in un clima come quello di cui stiamo parlando, fatto di giovani musicisti che non sono ancora seduti sulla propria fama e che manifestano una vocazione particolare alla ricerca e alla innovazione – che in questo caso significa sfrondare l’interpretazione da tutte le cattive abitudini del passato e restituire al testo l’originale freschezza – una “opera prima” trova cittadinanza e anche un posto dignitoso. L’opera di Gilberston, in particolare, pecca forse di eccessiva frammentarietà e non riesce a sviluppare sufficientemente il materiale tematico che pure è ricco e che potrebbe essere fertile; ma si sente che il giovane autore ha molte cose da dire e che finirà per trovare il modo di dirle. Un nome, il suo, da tenere d’occhio.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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