22 dicembre 2009

SICUREZZA: CARABINIERI O VICINI DI CASA?


Due notizie mi hanno colpito, tra le tante delle scorse settimane, apparentemente lontane. Le ho sentite però in relazione e, nella sintesi, specchio dei nostri mali. O almeno di alcuni dei nostri mali. La prima riferiva della crisi del volontariato in Lombardia e del calo conseguente dei volontari. Anni fa era una corsa e, come spesso accade, la corsa era diventata moda: modelli consumistici s’impongono anche là dove dovrebbe battere il cuore. Le ragioni del declino sono tante. Ovviamente le si dovrebbe ricercare nella generale decadenza morale e culturale del paese. Ma ne sottolineo una specifica, quando la responsabilità di chi opera è diretta: mi riferisco alla burocratizzazione, all’istituzionalizzazione delle associazioni. Troppe sono diventate uffici e scrivanie. Leggevo sui giornali: l’ottanta per cento delle risorse destinate alle ong serve a mantenere gli apparati. Mi piacerebbe verificare quel dato nella realtà italiana: qualcosa di vero comunque c’è, senza offesa per i volontari che rimangono.

La seconda notizia riguarda la sicurezza e cioè l’idea di un assessore regionale di puntare sul cosiddetto “controllo di vicinato” per rendere più sicuri, tranquilli, sereni i nostri quartieri. Su “vicini di casa” particolarmente solerti e attenti, pronti a denunciare qualsiasi andirivieni sospetto. Il sindaco Moratti aveva risposto naturalmente che il comune di Milano ci era già arrivato. Allegramente ho pensato a una commediola di John Belushi, l’ultimo film, prima della morte, che acutamente metteva in luce i pericoli che possono materializzarsi dalla “porta accanto”. Penosamente ho pensato al capo caseggiato di bellica memoria. Me lo raccontava mia madre d’essere stata vigorosamente rimproverata da uno di quei tali in camicia nera perché aveva dimenticato uno strofinaccio bianco sul parapetto del balconcino di casa. Il camerata l’aveva interpretato come un segno di resa. Non temo per ora il ritorno del capo caseggiato, anche se il momento potrebbe lasciar pensare al peggio.

Mi fa paura il piglio poliziesco di quelle parole: “controllo di vicinato”. Si comincia sempre così, dalle piccole cose, apparentemente inoffensive. Poi l’idea passa e s’ingrossa, si sedimenta e si rialza, magari con alcune variazioni in peggio, alimentandosi di altre voci e situazioni: dalla tolleranza zero alle ronde all’esercito in strada. Le parole, dicevano una volta, sono pietre. Se non lo si nomina, il “controllo di vicinato” potrebbe essere la cosa più normale di questo mondo: per qualsiasi “religione” (uso il termine in senso molto esteso) tutti sono miei vicini e a tutti dovrei essere pronto a dar soccorso nel bene o nel male. Dovrebbe essere normale, immediato, spontaneo sventare il borseggio della pensione davanti all’ufficio postale o aiutare il dirimpettaio nei guai per un rubinetto che lascia correre l’acqua. Senza medaglie e senza divise.

Credo che un tempo fosse così: nelle case di ringhiera di Milano si faceva festa in cortile, mangiando e ballando in compagnia e se qualcuno mancava si bussava alla porta. Nella casa dove sono cresciuto piani e pianerottoli erano luoghi di gioco di noi bambini e le porte erano sempre aperte, mai che si chiudesse a chiave, si andava e veniva da un appartamento all’altro e se la nonna del quinto piano aveva bisogno di qualcosa, lo zucchero, il latte o una medicina, eravamo pronti. Il controllo era in atto, talvolta pettegolo, molto spesso semplicemente amicale. Non succedeva che qualcuno morisse e rimanesse dimenticato per settimane e settimane.

Anche la denuncia di un reato dovrebbe essere normale, un dovere: lo chiede la legge quando se né si è testimoni. Se poi non succede, stiamo invadendo il terreno dell’omertà, dalla quale ci si allontana tanto quanto ci si sente tra “altri”, solidali nella vicinanza, e protetti, ovviamente, dalla legge e da chi la rappresenta. Come non è avvenuto per chi, ad esempio, ha denunciato le occupazioni abusive di Niguarda, esposto dopo la denuncia e dopo il primo intervento della polizia alle vendette di un’organizzazione di tipo mafioso. Non si può chiedere a nessuno d’essere un eroe e nessuno deve vestirsi da giustiziere.

In un caso e nell’altro, denunciando la crisi del volontariato o auspicando il “controllo di caseggiato”, mi sembra che si disegni un paesaggio oscurato soprattutto dalla crisi della solidarietà. Come se la nostra società fosse alla resa e non sto pensando alla solidarietà con le medaglie: sto pensando ai gesti quotidiani, semplici, banali, all’attenzione senza invadenza, affettuosa, per chi ti sta accanto, essere umano costretto nel tuo medesimo recinto.

Malattia di un agglomerato urbano, povero diviso competitivo al peggio, che chi amministra oggi cerca di esorcizzare inventando “regolamenti” e “istituzioni”, cancellando la spontaneità di una pratica, che se così fosse, naturale, comune, generosa, sarebbe ben più efficace e profonda, segno intimo di una cultura piuttosto che invenzione strumentale e occasionale di una politica. Il fallimento delle ronde avrebbe dovuto insegnare qualche cosa. Ma la “pratica” bisogna insegnarla, intanto in famiglia e a scuola, e c’è anche una “forma della città” che potrebbe aiutarla. E nella “forma della città” si dovrebbero misurare le intenzioni di un’amministrazione. Penso a Milano che non ha una “piazza”. Si può pensare alla “vicinanza” senza una piazza?

Oreste Pivetta



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