7 dicembre 2016

IL SI DI MILANO E IL NO DELLA LOMBARDIA

Il modello Milano alla ricerca di una leader


Il referendum impedisce per propria caratteristica l’esercizio dell’interpretazione post elettorale quella che si fonda sul “si, ma” perché chi perde è immediatamente identificato e perché anche gli effetti sono immediati: chi vince ha un capitale da spendere chi perde in genere va a casa come in passato è successo anche ad altri uomini “forti” della politica italiana penso a Craxi (scala mobile, preferenze) o a Fanfani (divorzio).

02marossi40fbNon a caso trasformisti, cacadubbi, opportunisti, arrampicatori sociali, sinistri di comodo, destri di comodo insomma il generone parolaio della politica odia i referendum che obbligano a scelte lineari ed esplicite e impedisce il tranquillo e rilassante consociativismo.

Tuttavia esiste una subordinata interpretativa seria ed è quella geografica, tanto più in questo referendum dove le differenze tra regioni sono enormi.

La principale difficoltà di lettura è data dalla inutilità di molte comparazioni: dal 1993 che con l’elezione diretta del sindaco possiamo considerare l’inizio della seconda repubblica i milanesi hanno votato per oltre 50 (leggasi cinquanta) quesiti referendari compresi quelli comunali tra cui indimenticabili quelli per l’abolizione del ministero dell’agricoltura e delle condutture elettriche; con una partecipazione altalenante che è andata calando dall’oltre 80% del 1993 al 30% del 2016, ma con un andamento non costante tant’è che nel 2011 i referendum sull’acqua superarono il 52%; anche i referendum costituzionali hanno avuto una partecipazione altalenante: 2001 33,6% e 2006 58,4%.

Alcune costanti risultano tuttavia evidenti. Milano come nel 2006 quando i no ottennero il 52,7% vota diversamente dalla regione che sempre nel 2006 diede al si il 54,6%. Dato che conferma la diversità dell’elettorato milanese che non a caso si rifiuta da anni di premiare leghisti, grillini, movimenti di protesta vari e che ha dato alle ultime politiche all’oggi vituperato Mario Monti ben il 13,7%.

Per gli ottimisti i dati vanno interpretati alla luce di Salvemini “Quello che pensa oggi Milano domani lo penserà l’Italia” per i pessimisti i dati vanno interpretati alla luce dell’antica constatazione popolare “l’ha faa la finn del Prina”.

Nel centro sinistra, i renziani sopratutto, pensano che questa diversità dipenda dalla qualità amministrativa messa in campo a Palazzo Marino che riduce le asperità e da vita a una base elettorale meno antagonista e più riformista. In questo senso i veri protagonisti del successo del si sarebbero Sala e Pisapia che in forme e modi diversi si sono spesi per il si e per ridurre le divisioni interne al loro schieramento. Certo vi è chi stigmatizza quei rivoluzionari da operetta che alle ultime comunali vagheggiavano palingenetiche alleanze e candidature e che poi rattamente schieratisi con Sala sono diventati strenui combattenti per il si ma è indubbio successo per Bussolati & co che le fratture interne al Pd siano risultate in città molto meno virulente che nel resto del paese.

Nei cinque stelle e tra i leghisti si pensa che questa diversità dipenda dal controllo sociale che l’establishment esercita sulla città, una sorta di “spectre” capeggiata dai poteri forti che prima o poi come disse Frattini a Filippetti al tempo dello scioglimento del consiglio comunale: “A Milano siamo un po’ in ritardo ma gli avvenimenti camminano e … presto l’amministrazione socialista, piovra di Milano industre e patriottica, sarà spazzata ..”.

Ma per l’analisi del voto cittadino leggetevi qui accanto l’articolo del direttore.

Personalmente credo che esista uno specifico riformista di questa città che la rende parzialmente diversa dal resto del paese che va coltivato (ma attribuire a Sala un ruolo politico e di orientamento dell’opinione pubblica mi sembra in questo caso abbastanza fantasioso), che non è una costante quanto piuttosto un periodico affioramento con molte pause, basti ricordare il travolgente successo di Albertini esattamente venti anni fa e che comporta alcuni effetti collaterali non secondari, in primis l’essere minoranza in Regione dai tempi dell’ormai dimenticato Paolo Arrigoni.

Il centro sinistra infatti non ha mai vinto un elezione diretta in Regione e anche in questa occasione pur essendo al governo di tutti i capoluoghi di provincia il sì ha vinto solo nelle città di Bergamo, Mantova, Monza, perdendo nelle altre e financo a Sesto San Giovanni (brutto segnale per la sindaca).

Come sempre però questo dato può essere letto in due modi:

1) per gli ottimisti essendo l’elezione regionale a turno unico, stante l’ovvia impossibilità del fronte del no di presentare un candidato unitario il centro sinistra parte in vantaggio e anche in modo considerevole;

2) per i pessimisti la frattura a sinistra ormai insanabile e contemporaneamente la sconfitta di Renzi allontanerà sia l’elettorato più radicale che quella parte di quell’elettorato centrista che aveva scelto il Pd e le liste civiche riconsegnando la regione al blocco moderato. É un modo di vedere la questione in termini europei, come ha scritto Gerard Grunberg a proposito della Francia: “la socialdemocratie est mangée par deux bouts, sur sa gauche e sur sa droite”.

Che il prossimo appuntamento clou siano le elezioni regionali o le politiche anticipate tutto si gioca sulla capacità del Pd milanese e lombardo di uscire da quella sorta di complesso di inferiorità che gli ha impedito di avere un ruolo nazionale nelle vicende del partito e dello schieramento e di promuovere propri candidati forti ricorrendo in forma permanente ai papi stranieri. Esiste una sorta di “maledizione Penati”, le sfortune dell’ultimo uomo forte di partito hanno portato il Pd lombardo milanese e in generale il centro sinistra a essere e a concepirsi come una struttura leggera, un buon comitato elettorale frutto della sommatoria di correnti, gruppi e liste, di giovani entusiasti e di stracchi veterani, di opinion leader o pseudo tali; un comitato efficiente e capace ma subalterno e sotto tutela in primis della direzione romana, del sindaco e della giunta in subordine.

Nel momento in cui il palazzo romano non è più in grado di operare questa tutela e il sindaco a tutto sembra interessato tranne che alla strategia politica, occorrerebbe una forte leadership meneghino/lombarda che imposti rapidamente una politica e un programma di alleanze e un percorso per l’identificazione del candidato.

Leadership che al momento non c’è. Ma domani è un’altro giorno e un’altro congresso.

 

Walter Marossi

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti