14 dicembre 2009

CARMEN E DINTORNI


Adesso che è passata l’onda di piena dell’inaugurazione della Scala, e che non siamo più prede dell’incalzare dell’«evento», possiamo fare qualche valutazione con il dovuto distacco e la necessaria ponderazione.

Prima di tutto l’esagerazione che dell’«evento» si è fatta su tutti i media, ad esclusione di RAI e di Mediaset che hanno esagerato in senso esattamente opposto (non potendo registrare la presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri – che quella sera era al cinema ad Arcore – né di altri suoi colleghi di peso, o forse per non dare troppo lustro al Presidente della Repubblica presente ed attento, lo spettacolo deve essere stato considerato “culturame” e così sono stati regalati a Sky ascolti da stadio): nei tre giorni 7, 8 e 9 dicembre, soltanto su Corriere della Sera e Repubblica, abbiamo contato 28 intere pagine fra nazionali e milanesi dedicate alla Carmen, come se la bella sigaraia avesse improvvisamente ereditato la corona d’Inghilterra o fosse sbarcata su Marte.

Questo eccesso di promozione e di marketing non giova a una grande istituzione come è e deve essere il nostro massimo teatro cui, proprio per la sua grandezza, si addice un profilo più discreto, maggiore understatement, in parole povere un po’ di severa compostezza; con questa gran cassa si è rischiato di compromettere l’enorme impegno e gli ottimi risultati, e di trascinare la Scala in una dimensione provinciale e pacchiana, quasi avesse “azzeccato” il successo per caso o l’avesse vinto alla lotteria.

Veniamo alla grande protagonista della prima, la regista che per qualcuno è stata l’eroina coraggiosa vincitrice di una grandiosa scommessa, per altri l’unica vera sconfitta della serata: Isotta sul Corriere è arrivato rilevare dei solecismi (mah … tradotti in lingua corrente sono errori di grammatica o di sintassi) e fra questi “alcuni simbolismi che, con la loro ingenuità, forse nascente da mancanza di cultura (sic!), fanno cascare le braccia“.

Noi non possiamo che confermare invece il nostro giudizio, e cioè che Emma Dante, questa artista fino a ieri praticamente sconosciuta, ha rivoluzionato la regia dell’opera lirica, come a loro tempo fecero Visconti, Strehler, Wilson, e che il suo spettacolo ha reso onore alla Scala, a Lissner e a Barenboim che l’hanno scoperta, invitata e sopratutto incoraggiata. Un’artista e una persona, aggiungiamo ora, grandemente ammirevole anche per l’eleganza con la quale ha accolto le critiche inopinatamente piovutele addosso da un loggione ancora e spesso retrivo.

Sul piano musicale nessuno ha messo in discussione, e noi men che meno, l’ottimo risultato e la qualità di tutti i protagonisti sul palcoscenico, a cominciare dalla splendida Anita Rachvelishvili di cui abbiamo detto la settimana scorsa, giù giù (si fa per dire) fino al coro delle voci bianche del Conservatorio; vorremmo aggiungere ora qualche parola (un po’ – anzi molto – fuori dal coro …!) sulla direzione di Daniel Barenboim.

Barenboim è indubbiamente uno dei massimi musicisti di quest’epoca e si è imposto all’attenzione universale con prestazioni straordinarie ed indimenticabili; una fra tutte, a noi milanesi ben nota, il meraviglioso Tristano e Isotta (come dimenticare quel duetto d’amore?) con cui inaugurò la stagione scaligera di due anni fa e ci riconciliò con il nostro teatro. E non solo come pianista prima e come direttore poi, ma anche per l’impegno civile e per le sue doti di scrittore, ha acquisito meriti indiscutibili che lo hanno giustamente reso grande personaggio mitico, adorato dal pubblico di tutto il mondo. Lui se ne rende conto perfettamente, e temiamo che negli ultimi tempi stia adagiandosi un po’ troppo sul fascino – o l’appeal – che sa di possedere.

Ce ne siamo accorti, per esempio, quando l’anno scorso – sempre alla Scala – eseguì in otto concerti l’integrale delle Sonate di Beethoven, dimostrando una cultura, una sensibilità, una capacità interpretativa di livello eccezionale (e raccogliendo ovviamente un successo strepitoso) ma con esecuzioni che lasciavano molto a desiderare dal punto di vista banale della professionalità: era evidente che tra un aereo e l’altro – e sopratutto fra un teatro e l’altro sparsi nei cinque continenti – il tempo per studiare gli volava via e quando si sedeva al pianoforte era ricco solo della sua grande sensibilità ed esperienza.

A nostro modesto modo di vedere è successo qualcosa del genere anche per questa Carmen: a dispetto delle migliori intenzioni e di felicissime intuizioni, della grande attenzione alle voci e all’impianto generale dell’opera, della musicalità prorompente ed accattivante, se aveste chiuso gli occhi ed ascoltato solo la musica, avreste percepito un fondo di routine, una scarsezza di profondità, di rifinitura, di magia. Avreste cercato invano quella tensione e quella concentrazione che, nelle interpretazioni dei grandi maestri, fanno raggiungere alle note altezze vertiginose e riescono a far sollevare gli spettatori dalla poltrona.

Detto in altre parole, si è avuta la sensazione che un eccesso di sicurezza abbia tenuto l’attenzione di Barenboim lontana dal podio, forse in palcoscenico. O che la teatralità abbia preso il sopravvento sulla musicalità. O ancora che la carnalità dell’opera di Bizet abbia travolto la spiritualità e l’interiorità del tessuto sonoro.

Insomma è mancato quell’effetto maieutico sugli spettatori che avevamo il diritto di aspettarci dal direttore wagneriano che abbiamo nel cuore. Non ci sarà stato anche qui lo zampino dell’onnivoro circo mediatico che sembra non volerci dare più scampo?

Paolo Viola



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