9 novembre 2016

MILANO E L’URBANISTICA DAI PIEDI DI ARGILLA

Prima dei mantra e delle emozioni ci sono i bisogni


Con il Consiglio Comunale del 27 ottobre scorso si è riaperto, e prosegue, il dibattito sul futuro degli scali ferroviari di Milano, e lo si fatto anche sulle colonne di ArcipelagoMilano con una carrellata di 28 interventi e altri ne arriveranno. Giusto che sia così perché si sta giocando un pezzo importante del futuro di Milano.

01editoriale36fbUna premessa deve essere fatta per sgomberare il terreno da un laccio che strangola tutto: il ruolo di Fs Sistemi urbani.

È arrivato il momento che il sindaco Beppe Sala si sieda al tavolo con Graziano Delrio, Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e dunque responsabile dei contratti di servizio delle Ferrovie dello Stato, con Pier Carlo Padoan, Ministro dell’Economia e delle Finanze e dunque “padrone” delle Ferrovia dello Stato, e sciolga il nodo: le aree degli scali vanno messe nella disponibilità del Comune di Milano senza alcuna contropartita, rinegoziando il contratto di servizio di Regione Lombardia e inserendovi questa condizione. Si può e si deve fare.

Le resistenze opposte da Renato Mazzoncini, amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Italiane e per lui dall’amministratore delegato di Fs Sistemi urbani De Vito, – “siamo una SPA di diritto privato, ecc. ecc.” – vanno superate senza esitazioni per una precisa ragione: l’irrilevanza dei ricavi attesi dalla alienazione a terzi delle possibili (?) volumetrie edilizie su queste aree confrontati con le cifre annuali che lo Stato versa alle Ferrovie dello Stato (12 miliardi circa), confrontata coi benefici per la città.

Di passata, approfittando dell’incontro, indurre i ministri interessati a cogliere quest’occasione per riportare Ferrovie dello Stato al suo ruolo vero, lasciando da parte il forsennato desiderio di diventare l’operatore unico del sistema dei trasporti su ferro e su gomma (vedi il programma di accorpamento in FFSS di ANAS e TRENORD) e di candidarsi a essere un grande operatore immobiliare con la solita scusa della razionalizzazione che mai poi si vede e della quale i cittadini mai godranno.

Un Governo o una parte politica, conscia del fatto che nel bene o nel male ora si è maggioranza ora opposizione, non dovrebbe avere alcun interesse alla nascita di giganti nel settore delle utilities in un Paese come il nostro, dove questi giganti si trasformano in contropoteri e strumenti di sottogoverno.

Ma veniamo agli scali e al dibattito in corso.

L’occasione degli scali deve condurre a una svolta nella cultura urbanistica che non può oggi fermarsi agli insegnamenti dei grandi maestri di questa disciplina: sto parlando di uomini del calibro di un Samonà, di Beguinot, di Bernardo Secchi, di Benevolo o di Campos Venuti, nel cui insegnamento e nella cui attività si leggeva sempre, anche solo in filigrana, il prevalere di un sano proposito di contrastare la speculazione edilizia e il forsennato consumo di suolo: una battaglia troppo spesso persa. Lo scenario che si dispiegava di fronte a loro era in ogni caso diverso, più semplice e gli obbiettivi chiari: oggi anche questa disciplina deve confrontarsi con una realtà molto più complessa da un lato e dall’altro utilizzare la possibilità di accesso a una messe di dati un tempo impensabile, utili per una seria politica urbanistica.

Il dibattito in Consiglio comunale – sembrava si discutesse di un semplice Piano di Zona – era nella migliore delle ipotesi figlio di quella cultura storica e comunque al di sotto delle attese di chi si aspettava un cambio di passo nella gestione del futuro assetto urbanistico di Milano.

In ogni caso nei prossimi giorni non solo i consiglieri comunali ma i cittadini e le associazioni più coinvolte dovranno esprimere un giudizio sia sulle linee di indirizzo, sia sulla delibera definitiva che sancirà il futuro di queste aree. Su che basi? Sulle densità? Sulla quota verde? Su che altro?

Durante il dibattito in Consiglio solo la consigliera Paola Bocci è andata al vero cuore del problema: l’analisi dei bisogni, il percorso obbligato soprattutto in assenza della famosa “visione” e per non sancire il passaggio dal “not in my back yard,allo “yes, please, in my back yard”. L’egoismo di vicinato rispetto al resto della città.

In un documento redatto per la Provincia di Torino Romano Astolfo, ricercatore a Ca’ Foscari, a proposito dell’analisi dei bisogni riporta un brano di Belle Ruth Witkin: La decisione fondamentale per tutte le organizzazioni è: Qual è il modo migliore per ripartire le risorse disponibili, inclusi tempo, denaro e sforzi organizzativi, per raggiungere tutte le domande – i bisogni – che sono di propria competenza? Queste decisioni possono essere basate sull’intuizione, su pressioni politiche, sulla scorta di pratiche passate o di preferenze personali …. Ma la maniera più efficace per risolvere questo problema è far diventare l’analisi dei bisogni il primo passo della programmazione. (Witkin, 1984, p. IX)“.

Non c’è nulla da aggiungere se non che, nel caso di Milano, siamo di fronte anche all’urbanistica delle emozioni e delle mode. Non andremo lontano.

Sull’analisi dei bisogni finalmente si è usciti dallo stretto recinto della psicologia per approdare all’urbanistica e la produzione scientifica è ormai copiosa a cominciare dai sei saggi pubblicati da Franco Angeli sotto il titolo significativo La città: bisogni, desideri, diritti. Il materiale non manca.

Dietro ogni scelta dunque ci deve essere un’attenta analisi e chi propone deve essere esplicito: mostri le analisi che sono a supporto delle sue scelte, altrimenti l’urbanistica ha i piedi di argilla.

 

Luca Beltrami Gadola

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti