26 ottobre 2016

VIAGGIO NEL GIAMBELLINO, DALLE CANZONI DI GABER AL RAMMENDO DEL G124*

Giovani “architetti condotti” nelle periferie milanesi


Basta fare una passeggiata nei cortili sgangherati di via Segneri dove i ragazzini scorrazzano in bicicletta e le donne li scansano brandendo borse della spesa, o alla biblioteca dove gli studenti si aggrappano al wi-fi gratuito per salpare verso altri universi. Ma per capire forse basta osservare il pensionato che zappa l’orto nel parco, non è il suo ma quello dove il quartiere, un quartiere con pochi soldi in tasca, viene a raccogliere la verdura. In questa stagione soprattutto cavoli, cardi, cipolle e scalogno. Mentre scrivo siamo in inverno. La verità è che il Giambellino non si è mai rassegnato al ruolo del quartiere dormitorio, della remota periferia esclusa dalla vita e scippata della sua identità. Le desolate banlieues parigine, dove il delirante messaggio del Califfato rastrella adepti, sono distanti. Sono distanti in tutti i sensi da questo spicchio di Milano incastonato nella periferia sud-ovest.

03piano35fbCirca 6000 abitanti di una ventina di nazionalità diverse. Da qui a piazza Duomo sono poco più di 5 chilometri, eppure non fosse per lo sferragliare del tram 14, per il cantiere della nuova metropolitana che irrompe o per i treni della stazione San Cristoforo sembrerebbe un mondo a parte. Nel bene o nel male il Giambellino si è sempre ribellato a chi o cosa voleva ridurlo a un deserto affettivo. La parola rassegnazione non è nel suo vocabolario, qui le strade brulicano delle iniziative di decine di associazioni. Ci sono anche luoghi dove incontrarsi, magari non saranno belli o fotogenici ma ci sono.

(…) Nelle città ci sono luoghi dove per misteriosa alchimia si concentrano le energie umane, non importa se positive o negative. Come se il cielo sopra il Giambellino si colorasse di storie: di lotta armata, di banditi in fuga dalle Giulia grigioverde della polizia, di osterie dai tavolacci di legno, di immigrati ma anche di note musicali, colori, solidarietà e speranza. Un luogo dove il confine tra legale e illegale è sempre stato molto sfumato. Questo quartiere è comunque protagonista, come il Cerutti Gino di Giorgio Gaber “che gli amici del bar del Giambellino lo chiamavan Drago e dicevan che era un mago”. Gaber abitava proprio qui vicino, in largo dei Gelsomini. A proposito, quel bar oggi straripa di gratta e vinci ed è gestito dai fratelli Giuseppe e Sergio Hu. Sono nati a Milano da genitori cinesi, chi fosse “Il Drago” lo ignorano e anche questa è una storia d’integrazione.

(…) Non è servito proprio a nulla, per dirla con più eleganza?  Noi del G124 siamo andati in giro per il quartiere, abbiamo vissuto qui per quasi un anno a caccia di scintille, per cercare quello che c’è di buono e che può innescare un ciclo virtuoso, i semi del rammendo che ancora prima che architettonico è sociale. Soprattutto abbiamo ascoltato, un’arte che è tutt’altro che semplice. Per fare bene bisogna capire e ascoltare. Come dice Renzo Piano, è difficile perché spesso le voci di quelli che hanno più cose da dire sono discrete e sottili. E poi ascoltare non è obbedire, ascoltare non è trovare compromessi, ascoltare è cercare di capire e quindi fare progetti migliori. Ci abbiamo provato, soprattutto lo hanno fatto quattro giovani architetti: Chiara Valli, Francesca Vittorelli, Matteo Restagno e Alberto Straci.

Di scintille ne abbiamo trovate, e tante. Ulla Manzoni che, come dice lei, “si fa gli affari dei vicini di casa” nel senso che basta che bussino alla sua porta per ricevere aiuto, una medicina, un piatto caldo o un semplice consiglio. Regolare o abusivo, bianco o nero, ricco o povero a lei non interessa. Fabrizia Parini, traduttrice professionista, insegna alla scuola per stranieri nell’ex casetta dell’acqua potabile. Se al Giambellino tanti egiziani, marocchini, cingalesi e peruviani parlano la nostra lingua è anche grazie a lei. La scuola ha centinaia d’iscritti, 20 insegnanti tutti volontari e ogni sera dalle 20 alle 22 c’è lezione. Qui c’è anche Vito Landillo, macellaio da cinque generazioni, partito da Trapani e arrivato nel quartiere più di trent’anni fa. Nel mercato comunale di via Lorenteggio ha costruito la macelleria equina più grande della Lombardia e se c’è qualcuno che ha fame trova sempre il modo di recuperare una bistecca. Il suo motto? Chi non si adopera per gli altri perde qualcosa.

Abbiamo incontrato anche il rapper Emis Killa, star di periferia che nei cortili dei palazzoni popolari di Vimercate ha imparato i segreti del freestyle e che di cognome, sarà un caso, ma fa Giambelli. Ci ha assicurato che quando farà il cash vero vuole fare qualcosa per la periferia, la sua fortuna nasce qui e qui è tornato. Perché? “Mi ha ispirato e la porto sempre con me, perché è la mia dimensione che non ho mai rinnegato e non rinnegherò mai. Ho provato ad andare a stare in centro a Milano, ma è durato poco e sono tornato indietro”.

Da fare qui c’è molto, a partire dalle 500 case popolari non assegnate che vengono regolarmente occupate da abusivi, talvolta anche con qualche ragione. Molte di queste (393 per la precisione) sono monolocali di 25 metri quadrati che la burocrazia bolla come inabitabili, perché inferiori ai 28,8 metri che sono la soglia minima per viverci, stando a un regolamento della Regione Lombardia anno 2003. Pensate la follia.

Rosalba Rombolà ha invece inventato insieme a un gruppo di amici il cinema nei cortili e ha un’idea fissa: portare la cultura dove non esiste. Ci sta riuscendo visto che a ogni proiezione partecipano almeno 150 persone, che scendono portandosi le sedie dalla cucina quando quelle a disposizione degli spettatori sono finite. Già, perché d’estate a vedere i film arrivano in molti anche dai quartieri chic. Su Facebook la pagina Scendi c’è il cinema ha raccolto tremila mi piace. “Ed è anche un modo per creare relazioni sociali tra persone che spesso abitano lo stesso quartiere senza conoscersi”, spiega Rosalba. “Con questa iniziativa vogliamo mostrare un’altra anima del nostro quartiere: troppo spesso si associa il Giambellino a parole come insicurezza, paura, violenza”.

Giusto, troppo spesso alla parola periferia si accosta, in uno sciagurato matrimonio, il termine degrado. Non sempre l’abbinamento è così scontato; quello che ci piacerebbe fare è invertire il senso negativo di periferico. Perché in ogni quartiere c’è sempre un angolo di bellezza, ci tocca ricordare ancora una volta Italo Calvino e le sue Città invisibili: “Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. Uno che nel cambiamento ci crede è don Renzo Marnati, che nella sua parrocchia di San Curato D’Ars raccoglie cibo e poi lo consegna a domicilio a chi non può muoversi. Ha tanto lavoro da fare questo prete di strada e cerca uomini di buona volontà, chi vuole mettersi in gioco si faccia avanti. Secondo l’arcivescovo Angelo Scola, che la scorsa primavera è venuto qui a celebrare messa, “questa parrocchia vive una realtà decisiva per il domani della città, perché vi si incontrano molte contraddizioni e sofferenze che indicano ai milanesi quale sia la strada da percorrere nel futuro”. Con l’aria che tira di questi tempi in Vaticano, don Renzo potremmo anche ritrovarlo cardinale. Al Giambellino ci sono anche paladini del rammendo, come Mina l’elettricista egiziano che corre a riparare citofoni e portoni senza chiedere un euro.

Le scintille non finiscono qui, nel cuore del quartiere c’è un luogo di aggregazione dove convivono cultura, informazione e solidarietà: la Biblioteca comunale, con tremila iscritti e il wi-fi per tutti. Uno dei posti che, assieme al mercato comunale e ai cortili delle case popolari, sono stati individuati da G124 come innesco per ricucire lo spazio comune del quartiere. Come? Abbattendo muri e recinzioni. Qualcosa si è cominciato a fare. C’è anche Barbara Weith, anima dell’associazione Giambellgarden, che coltiva cardi, zucchine, pomodori, rosmarino e tanto altro in quello che è l’orto collettivo. Ci sono i ragazzi di Dynamoscopio, associazione culturale che si muove tra i campi dell’antropologia, delle politiche urbane, delle arti, della letteratura e del cinema e che ha dato una grossa mano a G124. Sono troppe le scintille per ricordarle tutte.

Le conosceremo nel corso delle pagine assieme ai quattro architetti condotti del G124. Perché architetti condotti? Il loro mestiere assomiglia a quello del medico, però si preoccupano di curare non le persone malate bensì gli edifici malandati. Visitano a domicilio le case da rammendare, fanno la diagnosi e prescrivono la cura. Nelle periferie non c’è mica bisogno di demolire, che in fondo è un gesto d’impotenza: bastano interventi di microchirurgia per rendere le abitazioni più belle, vivibili ed efficienti. Questo è ancora più vero al Giambellino, dove le case sono strutturalmente sane. “Essere architetto condotto, come accade per il medico condotto, insegna una cosa importantissima: l’arte di ascoltare la gente e di trovare l’ispirazione”, dice Renzo Piano. In questo senso c’è un altro tema, un’altra idea da sviluppare, che è quella dei processi partecipativi. Quella di coinvolgere gli abitanti nell’autocostruzione, perché tante opere di consolidamento si possono fare per conto proprio o quasi, che è la forma minima dell’impresa. Parliamo di cantieri leggeri che non implicano l’allontanamento degli abitanti dalle case, ma piuttosto la loro partecipazione attiva ai lavori. È la rivincita di quella che Marco Ermentini, uno dei tutor con Ottavio Di Blasi del G124 edizione 2015, definisce “architettura timida”. Proprio per questo gli architetti condotti hanno distribuito agli abitanti un manualetto: Piccoli consigli per il rammendo. Dove si spiega come gli inquilini possono diventare protagonisti e occuparsi personalmente della manutenzione della propria abitazione.

C’è già chi ha cominciato a tradurre questa guida in arabo e spagnolo. Da sempre in questi cortili, ognuno prudentemente protetto da un’edicola con la Madonnina, si parlano tutte o quasi le lingue del mondo. Questione di DNA. Il Giambellino infatti è nato alla fine degli anni trenta per accogliere gli emigrati richiamati in patria da Benito Mussolini, chi non ubbidiva perdeva la cittadinanza italiana. Tornarono da Francia, Siria, Corsica, Turchia, Marocco, Somalia ed Eritrea. In via Segneri si parlava una lingua a metà tra il francese e il milanese. Una delle particolarità del quartiere è rappresentata proprio dai tanti linguaggi che negli anni si sono accavallati: il milanese degli anziani, il terrunciello che ha reso famoso Diego Abatantuono, i dialetti sudamericani, il cinese e il romeno, lo slang triviale degli zarri, i coatti milanesi. E poi ancora il wolof dei senegalesi.  (…)

(…) Uno di quei pochi ha raggiunto il pensionato che sta finendo di zappare l’orto, proprio alle spalle della Casetta verde. Appoggia lo zainetto e si mette a strappare con le mani le erbacce intorno a una grossa zucca arancione. Ci spiega che in wolof si dice baanga o qualcosa di simile e, quando sarà matura, vuole usarla per preparare un mafé da mangiare con gli amici. Uno stufato di verdure cresciute qui, nel parco del Giambellino. Siete tutti invitati.

 

Carlo Piano

L’articolo è tratto da G124 – Giambellino 2015, a cura di Carlo Piano, Skira editore, Milano, 2016, pp 240
*- G124 – Gruppo di lavoro al Senato della Repubblica Italiana sul rammendo urbano



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