19 ottobre 2016

MILANO E L’URBANISTICA PERIPATETICA

Partendo dal caso del Tunnel di via Gattamelata e del destino di Fiera Portello


Il linguaggio calcistico è pervasivo. Da qualche tempo si parla troppo di riprese e ripartenze. Tre le occasioni più sbandierate dalla politica che conta: il Mezzogiorno, “se riparte il Sud riparte l’Italia”; il settore immobiliare, “bisogna farlo ripartire, così riparte tutta l’economia (ovviamente…); Milano, “è già ripartita alla grande, l’Italia si adegui”. Riguardo a Milano, perché lo slancio non suoni retorico bisognerebbe chiarire meglio in cosa consista la ripartenza e in che modo eventualmente la Città possa imprimere vigore all’economia di tutto il Paese.

04degaspari34fbL’innovazione milanese di maggior diffusione nazionale è quella nota come rito ambrosiano della pratica edilizia. Il modello milanese che ha faticato di più a proporsi a livello nazionale è invece una particolare forma storica di “economia sociale”, non solo riguardo alle istituzioni educative, solidaristiche (l’Umanitaria, la società Arti e mestieri, le scuole serali per i lavoratori) e finanziarie (la Cassa di Risparmio, la banca mista, l’azionariato popolare) che ha generato, ma anche rispetto agli istituti normativi che ha saputo creare.

Se l’agricoltura lombarda fu a lungo la più avanzata d’Europa non si deve alle condizioni ambientali del territorio, pessime, ma al diritto d’acquedotto. E se la Città e il suo sistema economico seppero superare la parcellizzazione degli egoismi nella diffusione dell’elettrificazione non fu solo grazie alla vicinanza dell’Adda, ma anche all’estensione di prerogative analoghe a quelle del diritto d’acquedotto alla diffusione delle linee elettriche. Non sarebbe male che Milano riscoprisse questo suo ruolo innovatore e mostrasse al Paese come anche nel settore della normativa urbanistica sia possibile riformare a basso costo adeguando il ruolo delle politiche pubbliche rendendo al contempo più efficiente l’ammontare degli investimenti.

Penso in particolare a due episodi abbastanza recenti dell’urbanistica milanese che lasciano piuttosto perplessi: il tunnel di via Gattamelata e la vicenda dello stadio al Portello. Il primo pone l’annoso problema dei tempi di realizzazione delle opere pubbliche, che spesso vengono portate a compimento quando ormai non se ne ravvisa più l’utilità, il secondo riguarda soprattutto il tema della regia pubblica nel compiersi dei processi di costruzione territoriale. Non da tutti è riconosciuta la cruciale rilevanza del buon utilizzo delle risorse pubbliche e le recenti richieste di helicopter money che stanno addirittura riportando in auge la versione più trita delle inutili buche keynesiane come politica economica dell’investimento in deficit quale che sia. Invece, com’era già stato ben chiarito da Minsky, proprio il passaggio da un’economia priva di un settore pubblico a un sistema a forte componente pubblica richiede un surplus di oculatezza nella conduzione della finanza pubblica, in ragione del fatto che proprio la spesa che favorisce la formazione di capitale è la più efficace nell’assicurare condizioni di progresso tranquillo.

Da questo punto di vista il modello gestionale di cui si avverte la necessità, e su cui Milano potrebbe dar prova, è un sistema dove la costruzione del consenso sia una prospettiva di lungo periodo, estranea alle intemperie del comitatismo e alla giusta scala territoriale. In altri termini il modello che serve mettere a punto non ha le caratteristiche del decisionismo, spesso subalterno a richieste estemporanee e sgangherate, ma è piuttosto fatto di studio, di programmazione, di partecipazione disciplinata, consapevole e organizzata.

Il tunnel inutile e lo stadio peripatetico sono, anche se non i soli, due bei banchi di prova. Da una parte un’opera stancamente portata a compimento solo perché sarebbe stato più costoso smantellarla, dall’altra un affaire abbastanza oscuro dove la sola cosa chiara è stata l’inquietante latitanza dell’amministrazione comunale. Da una parte la vecchia aspirazione alla grande opera che possa lasciare un segno duraturo sul terreno, dall’altra la persistente ideologia del massimo sfruttamento edificatorio, con un grande specchione a uso delle allodole che doveva rendere passabile il tutto, finendo per mandare nel pallone anche i privati. Così, invece di essere Milano a indicare la strada virtuosa di un progetto politico innovativo, è ancora Roma che imprime la sua secolare e parassitaria egemonia.

Due ci sembrano gli aspetti su cui andrebbe definito un approccio diverso e più attuale. Innanzitutto si dovrebbe riconoscere, dichiarandolo come si trattasse di un manifesto programmatico, che i processi di ridefinizione urbana non possono essere gestiti sempre attraverso la massimizzazione della rendita urbana. I tempi sono maturi, e gli esempi a conferma innumerevoli, perché si riconosca che ciò che la rendita può dare, sempre sulla carta e in termini di plus valore finanziario e opere pubbliche, toglie alla qualità, all’innovatività e alla certezza dello sviluppo.

In secondo luogo occorre mettere a punto un programma gestionale conseguente basato sulla centralità del ruolo dell’amministrazione pubblica, di un ufficio di piano che sia custode di un progetto di lungo periodo e del preminente interesse della collettività. Può sembrare ovvio, ma non lo è per niente. Se c’è un settore in cui la dogmatica ultraliberista ha esercitato davvero un’incontrastata egemonia è l’urbanistica, dove ciò un tempo era sanzionato, il recepimento di interessi privati nella costruzione del piano, è stato infine non solo tollerato, ma è diventato praticamente obbligatorio. Questo sarebbe anche il modo per chiudere davvero, una volta per tutte, con la lunga stagione della trasversale egemonia formigoniana.

Mario De Gaspari



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti