19 ottobre 2016

musica – DUE VIOLONCELLI PER DVOŘÁK      


Giovedì scorso a Milano è accaduto un fatto inusuale che ha fatto desiderare a Luigi Di Fronzo, critico musicale di Repubblica, di possedere il dono dell’ubiquità. È successo che alla stessa ora dello stesso giorno i due violoncellisti che con il nostro Brunello godono della fama di essere i primi al mondo, hanno eseguito alla stessa ora in due sale diverse il Concerto n. 2 in si minore opera 104 per violoncello e orchestra di Antonin Dvořák, uno dei più celebri capolavori scritti per quello strumento. Era veramente difficile scegliere fra Lynn Harrell e Mischa Maisky, il primo al Conservatorio per la Società dei Concerti, accompagnato dalla Orchestra Filarmonica di Dortmund diretta dal berlinese Gabriel Feltz, il secondo al teatro Dal Verme accompagnato dall’orchestra dei Pomeriggi Musicali diretta dal milanese Daniele Rustioni.

musica34fbAl Conservatorio il programma era completato dalla Sinfonia numero 2 (o numero 7 se si vogliono considerare anche le quattro pubblicate postume) opera 70 dello stesso Dvorák, al Dal Verme dalla Sinfonia numero 5 opera 82 di Jean Sibelius. Per fortuna i concerti dei Pomeriggi musicali si replicano il sabato pomeriggio e così abbiamo avuto il privilegio di poter ascoltare le due esecuzioni a distanza ravvicinatissima (meno di quarantotto ore) e di poterle confrontare con ragionevole scrupolo.

Il concerto in si minore – scritto da Dvořák quando era ancora a New York, nel 1895, due anni dopo la famosa Quinta Sinfonia in mi minore detta “Dal Nuovo Mondo” – è notoriamente una delle pagine più ispirate della letteratura per violoncello e orchestra e uno dei pezzi che più consente agli esecutori-solisti di esprimere non tanto una tecnica raffinata (condizione necessaria ma non sufficiente) quanto una capacità interpretativa che deve inoltrarsi in sentimenti complessi e in intricate radici culturali. La Boemia è un impasto di tradizioni slave e di caratteri germanici (la Sassonia, la Turingia, la Franconia), fra anime diverse ma cresciute sulle rive dello stesso fiume; l’Elba, dopo la confluenza della Moldava poco a nord di Praga e ai piedi del castello di Melník, attraversa per intero sia la Boemia che la Sassonia. Non è stato difficile, in questa occasione, ritrovare in Maisky i sentimenti di nostalgia, di malinconia, di lontananza della patria che dominavano comunque Dvořák nei suoi anni newyorkesi e in Harrel quell’attrazione verso il mondo occidentale che negli stessi anni, almeno parzialmente, si sovrapponeva all’indole slava del compositore.

Difficile invece immaginare artisti più diversi di questi due: Harrel, americano fino al midollo delle ossa, mezzo newyorkese e mezzo texano, un omone dall’aria bonacciona con due grandi mani dalle dita grassocce che non diresti adatte allo strumento, vestito dimessamente di nero, sorridente e felice di godersi la musica di cui è il primo a commuoversi. Maisky, invece, curato fino all’inverosimile con la grande chioma bianca cadente sulle spalle, la solita camiciola blu elettrico aperta sulla vistosa collana, pantaloni neri e flosci tipo tuta da ginnastica, che si terge spesso il sudore manifestando l’impegno, la fatica, la sofferenza. Ma tutti e due con la stessa profondità di pensiero, la stessa concentrazione e la stessa capacità di trasmettere al pubblico il senso delle note e l’emozione di evocarle. Due letture diverse ma tutte e due intime, commosse, struggenti nella conclusione dell’Adagio ma non troppo e travolgenti nell’Allegro moderato del finale. E ovviamente tutti e due alla fine scelgono come “bis” due brani di Bach come per dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che la grande e vera musica non deve mai essere sovrastata dalla tecnica.

Un discorso a parte va invece fatto per le due orchestre e per i loro direttori. Della Dortmunder Philharmoniker dirò che mi è sembrata modesta, incapace di esprimere un vero ésprit de finesse, capace invece di mostrarsi più potente e aggressiva che non duttile e morbida, con un suono che ha poco a che vedere con quello dei connazionali Berliner o dei cugini Wiener: Harrel non si è fatto sovrastare dall’esuberanza dell’orchestra ma ha dovuto faticare non poco per far emergere le raffinatezze della partitura. Il direttore mi è sembrato anch’egli tutto sommato modesto, con poche idee e con molti gesti scomposti che disorientavano i professori più che aiutarli: lo si è potuto constatare nella seconda parte del concerto, con la seconda Sinfonia – una delle migliori del compositore ceko – eccessivamente aspra e sanguigna, il cui primo movimento era sicuramente più assertivo che “maestoso” come indica l’autore, mentre l’ambiente sonoro era decisamente più adatto alla musica di Šostakovič che non a quella di Dvořák (che si ritiene discendere direttamente dal mood brahmsiano).

Una felice sorpresa si è presentata invece al Dal Verme, dove l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali è sembrata risorta dal grigiore e dall’opacità che l’hanno dominata negli ultimi anni manifestando qualità del tutto nuove: magnifici gli ottoni e ottimi tutti i fiati, gli archi disciplinati con un suono pieno, maturo, perfettamente equilibrato. Una piacevolissima scoperta nel momento in cui a Milano tutto si muove nel mondo delle orchestre, con l’arrivo di Chailly alla Scala e con l’attesa del nuovo direttore dell’orchestra Verdi. Daniele Rustioni, il trentatreenne direttore che ha già percorso parecchia strada sulla via del successo, si è rivelato perfetto nell’accompagnare Maisky – compito peraltro assai delicato se si pensa alla differenza di età e di esperienza fra i due – e poi tanto sagace e colto da far diventare attraente la Sinfonia di Sibelius che non si può annoverare di certo fra le opere più riuscite del grande compositore finlandese. Rustioni ha diretto sia Dvořák che Sibelius con grande attenzione nella scelta dei tempi, con un fraseggio accuratissimo e con un modo molto intelligente di attaccare ogni movimento subito a ridosso del precedente, senza inutili pause, concedendo all’orchestra – e al pubblico – solo il breve respiro necessario per il passaggio da una tonalità all’altra. Scuola abbadiana, perfetta.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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