5 ottobre 2016

ARCHISTAR TRA CAPITALISMO FINANZIARIO E COMUNITÀ URBANE

Il supersviluppo senza regole  


Tempo fa alla Triennale di Milano si è svolta una discussione dal titolo “Archistar sì, Archistar no”, con una serie di interessanti interventi. Personalmente sono molto attento all’invenzione (ormai da qualche anno in uso anche televisivo) della bizzarra categoria degli archistar (a cui io non appartengo). È una precisa definizione dei protagonisti sia della disastrosa condizione della cultura architettonica di successo dei nostri anni, sia dei modi antimoderni di essere dei suoi progetti. Ne scrivo da trent’anni, contro i vaghi ma molto diffusi argomenti che la sostengono. Devo però ricordare anche che i processi di interrogazione autocritica sul Movimento Moderno, come tutti voi sapete, sono iniziate già nel 1951, al CIAM di Hoddesdon e al convegno di Darmstadt dello stesso anno, dove Heidegger intervenne con la conferenza “Costruire, abitare, pensare”.

Da queste discussioni critiche degli architetti, specie quelli della mia generazione, sono nati i dibattiti intorno ai temi della complessa relazione tra i principi metodologici del Movimento Moderno e i temi della storia, quelli del contesto e quelli intorno all’antropogeografia come materiale del progetto, ma anche, al contrario, le tesi della supertecnologia come unico futuro. Senza dimenticare che si sono poi sviluppati, nel cinquantennio seguente, per le arti e la politica, altri avvenimenti importanti e i loro complicati incontri che tutti noi conosciamo: dalle ideologie indio-statunitensi, ai gruppi 47 tedesco e 63 italiano, dalla linguistica strutturale, alle eredità interpretative del movimento del 68, sino alla crisi definitiva dell’Unione Sovietica e della sua architettura.

02gregotti32fbMa la definizione di archistar è soprattutto espressione coerente al passaggio dalla cultura industriale occidentale, prima familiare e poi manageriale, sino al capitalismo finanziario globale e descrive bene anche la fine della capacità di scontro politico della classe operaia. Insieme a tutto questo ha preso vigore l’idea del futuro come tecnologia, cioè dei mezzi considerati come fini, la comunicazione immateriale come strumento di convinzione delle maggioranze e la negazione delle arti come critica strutturale alle contraddizioni del presente, anche con il progressivo indebolimento del progetto di fronte ad ogni ideale (religioso, politico, utopico) e delle stesse teorie architettoniche.

In sostanza, di fronte alle ambizioni per il supersviluppo urbano e territoriale senza regole e dell’ideologia della città generica, una negazione dell’importanza del disegno urbano e territoriale e una posizione (dopo le accademie postmoderne) degli archistar contro la storia del contesto e della nostra disciplina: il terreno cioè per la coltivazione degli archistar e, per l’architettura, un cambiamento radicale dei procedimenti di progetto. La relazione dialettica tra autonomia ed eteronomia diviene tutta a favore dell’eteronomia e le grandi organizzazioni edilizie con le loro strutture tecniche, economiche, burocratiche e di marketing, decidono il progetto divenuto prodotto. Così l’architetto, in quanto archistar, è progettista solo dell’immagine come televisibilità mercantile dei poteri e del mercato.

È l’accademico immobilismo dell’incessante novità contro ogni nuovo perché, come diceva Le Goff discutendo con Jean-Pierre Vernant, “ciò che conta oggi è la produzione dell’evento (compreso quello storico) e, con la televisione e le comunicazioni immateriali il modo di produrre l’evento è del tutto connesso a interessi specifici”.

L’esempio del successo del Grattacielo come affermazione del colossale contro l’idea di grandezza, diventa prova di forza del dominio del potere finanziario.

Così si produce un’estetizzazione distruttiva anche della protesta senza proposta, con una preoccupazione ecologica come scusante della perdita del senso del luogo e della comunità e un globalismo neocoloniale contro le preziose diversità delle diverse culture.

Una falsa creatività deve dominare su tutto, nascono anzi i professionisti della creatività (secondo la tesi di Richard Florida) e della liquefazione delle diverse arti a favore di un mercato del bizzarro artificioso: tutto diviene esibizione temporanea. Le celebri tesi di Derrida intorno al decostruzionismo compiono con l’architettura “un infelice matrimonio”, com’è sottotitolato il numero 368 di Aut Aut fondato sul malinteso divenuto, per l’architettura, il vangelo delle archistar, in cui è contenuta anche la messa in evidenza della progressiva perdita del senso dell’identità della comunità urbana anche di là dalle vaste postmetropoli, come lo stesso Derrida scrive chiaramente.

“Invece l’architettura – come scrive Damiano Cantone – è un tipo di testo e ogni testo possiede una sua architettura. Perché per Derrida l’architettura non è ascrivibile solo al campo della rappresentazione ma piuttosto all’apertura di una possibilità”.

Credo che poi non si debbano dimenticare a questo proposito anche le numerose dichiarazioni di Derrida in cui “l’architettura è la manifestazione simbolica più evidente della metafisica del presente, affermazione che percorre tutta la raccolta di Francesco Vitale degli scritti di Derrida sull’architettura.

Io sono ingenuo e fortunato perché credo ancora che l’architettura debba confrontarsi criticamente (e senza dipendenza ideologica) con i valori di libertà e giustizia per mezzo dei suoi strumenti specifici. Forse credo persino a un ritorno, contro l’opinione di Riegl, dell’idea di Semper dell’opera d’arte come un saper fare, come prodotto di uno scopo, di un materiale e di una tecnica. Ovviamente per me scopo è, oltre che l’uso, il fondamento, il senso, l’intenzionalità, e la pratica materiale è una scelta che rende possibile e necessario lo scopo poetico dell’opera, mentre la tecnologia specifica è l’interesse per far coincidere le capacità di dar forma all’intenzionalità dell’opera.

So bene che si tratta di tesi che vado, con alcuni altri, ripetendo da molti anni e cercando di provarne la necessità, anche con il mio lavoro di architetto perché, come ho già detto, l’architettura è l’unica pratica artistica che affronta la dialettica concreta tra autonomia dei fondamenti, delle regole disciplinari, delle teorie e delle intenzionalità poetiche mentre, per l’eteronomia indispensabili sono le funzioni specifiche, le tecniche, l’economia, l’intenzionalità del cliente e gli altri vincoli.

È solo nel progetto (e poi nell’opera) che l’architettura diventa idea, cioè forma visibile.

Tutto questo non esclude la presenza anche oggi di grandi e autentici architetti come Alvaro Siza o Tadao Ando e alcuni altri (anche tra giovani italiani) che lavorano a partire da una critica alle contraddizioni del presente, alla ricerca di frammenti di verità (una verità non è assoluta ma storica) su cui fondare un nuovo possibile e necessario: anche proprio contro il parere delle maggioranze. Perché anch’io credo – come scriveva Adorno – “proprio perché l’architettura oltre che autonoma è legata a uno scopo non può negare gli uomini come sono anche se, in quanto autonoma, deve farlo”.

Vittorio Gregotti

 

 

 

 



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