28 settembre 2016

“PATTO PER MILANO”. MA I SOLDI CHI CE LI METTE?

Milano il 67%, UE 22%, Stato 17%. Nell’organismo di gestione a Milano un posto su quattro


Il “Patto per Milano”, ossia l’intesa istituzionale di programma fra la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Città di Milano, quali contenuti propone e quali aspetti istituzionali solleva?

02longhi31fbSui contenuti. Ogni atto deve avere uno scopo guida. Data la situazione del nostro Paese è da immaginare che il patto fra la Presidenza del Consiglio e il Sindaco di una delle maggiori aree metropolitane europee abbia come oggetto il contributo che quest’ultima può e deve dare per fare uscire il Paese da uno stato di stagnazione che dura dal 2008, con diminuzione severa di occupazione e investimenti, in presenza di finanziamenti europei eccezionali (vedi settimo programma quadro 2007-2013 a favore delle regioni del mezzogiorno) e di concessione di credito a tassi negativi da parte della BEI.

Il Patto non sfiora minimamente la questione della rinascita del Paese, esso fa riferimento a interventi di ordinaria amministrazione (roba minima direbbe Enzo Jannacci), in gran parte programmati da tempo: prolungamenti delle linee metropolitane, sostituzione di mezzi, manutenzione di edifici pubblici e di edilizia sociale nelle periferie, azioni per evitare le secolari esondazioni di Seveso e Lambro, e, finalmente, un’azione strutturale consistente  nell’avvio del progetto del prolungamento della M5 verso Monza. Quest’opera non ha i tempi dello sviluppo economico ma delle ere geologiche: è stata pensata nell’olocene (appena dopo il secondo conflitto mondiale), sarà avviato uno studio di fattibilità oggi, e siamo nell’antropocene, in quale era verrà realizzata?

Dal punto di vista delle risorse (644 milioni di euro per i prossimi due anni, per i successivi chi ci sarà provvederà) il patto non sembra equo: il 67% sono fornite dal Comune di Milano, il 22% dalla Comunità europea (attraverso il PON Metropoli, il quale a sua volta è finanziato in gran parte con risorse gestite dalla Regione, e qui si apre la spinosa questione dell’autonomia finanziaria della città metropolitana), il 17% dallo Stato attraverso il Fondo di Sviluppo e Coesione (essendo tale fondo destinato a interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici e sociali che riguardano le aree svantaggiate è almeno dubbia l’opportunità della sua destinazione a favore di una delle più ricche aree mondiali). A detta degli estensori del documento tali risorse dovrebbero avere un effetto moltiplicatore di investimenti pari a circa quattro volte, e qui ci troveremmo di fronte a un vero e proprio miracolo keynesiano, dato il prevalente valore sociale e manutentivo degli interventi.

A questa parte ‘tangibile’ e documentata contabilmente del patto, ne segue un’altra che fa capo alla filosofia cara al Presidente del Consiglio della ‘annunciazione’, ossia di enunciati che non hanno riscontro nella parte contabile; essi riguardano provvedimenti che riguardano l’area Expo e la società ad essa collegata, il welfare e l’internazionalizzazione.

Per l’area Expo si ribadisce l’ipotesi di insediamento dello Human Technopole, ossia la speranza governativa di inserire un istituto di ricerca nell’area interclusa dell’Expo, per la stessa area si suggeriscono la destinazione a zona economica speciale e incentivi fiscali per attrarre nuove imprese. È annunciata infine la liquidazione della società Expo spa (con un onere per il Comune di 4,74 milioni di euro da appianare con manovre finanziarie su cui non entro qui nel merito).

Per il welfare si annunciano azioni a favore di emarginati, senza tetto, immigrati e misure a sostegno del reddito.

Riguardo all’internazionalizzazione la Giunta comunale ha ravvisato l’opportunità di costituire una società pubblico/privata sul modello della London&Partners, destinata a valorizzare il capitale umano della città, e di candidare Milano a sede dell’agenzia europea European Medicines Agency.

Sulla natura istituzionale del Patto era da attendersi che un atto amministrativo così modesto nella sostanza facesse capo da una parte all’attività ordinaria dell’Agenzia per la coesione territoriale, organo della Presidenza del Consiglio la cui missione è facilitare le autorità locali nella gestione dei contratti comunitari e del fondo di sviluppo e coesione, dall’altra all’ufficio di pianificazione strategica della Città metropolitana. Questo processo ordinario avrebbe generato un virtuoso flusso di relazioni fra ente locale e autorità centrale, dando impulso alla da lungo annunciata Agenda urbana e al naturale luogo di incontro delle parti costituito dal PON Metropoli.

Ma il patto va in un’altra direzione: la sua gestione prevede un altisonante comitato composto al 75% da rappresentanti degli apparati statali (Agenzia per lo sviluppo, che coordina, Dipartimento per le politiche e la coesione – che sulla carta doveva essere abolito, Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica – che con i venti che soffiano dovrebbe aver ben altri pensieri e priorità). L’Ente locale è presente solo con un rappresentante del Comune di Milano.

Morale: nella gestione del contratto il Comune di Milano con la progettazione degli interventi e il 67% delle risorse si guadagna un solo rappresentante, la Presidenza del Consiglio con il 17% delle risorse il controllo dell’intero processo.

Il Patto è un esempio significativo dei motivi strutturali che hanno portato e portano alla stagnazione del Paese: da una parte un’autorità centrale con unità che operano ancora in modo frammentato su base funzionale, con un’idea di programmazione che immagina un sistema urbano 2.0 (ossia impegnato nel lento miglioramento della realtà ereditata dall’epoca industriale), dall’altra una metropoli 5.0 (ossia impegnata ad affrontare cambiamenti dirompenti di ordine sociale, ambientale e tecnologico), ovviamente con molti problemi ma con un ottimo posizionamento nelle classifiche internazionali delle città più moderne, ma con una giunta che Walter Marossi, in un articolo del numero scorso di questo giornale, definisce “di condominialisti”.

Qui, come altrove, se il centro è debole spetta alla Città metropolitana rigenerata fare da traino al Paese, quindi come trasformare un gruppo di ‘condominialisti’ in politici proattivi è la vera sfida che la società metropolitana nel suo complesso deve affrontare con decisione. E questo argomento merita un successivo adeguato approfondimento.

 

Giuseppe Longhi



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