21 settembre 2016

I MIEI DATI A WHATSAPP O AL SINDACO BEPPE SALA?

Il dato è patrimonio pubblico, per un contrasto alla datocrazia si parte dal consenso alla raccolta


C’era un tempo in cui gli Stati volevano raccogliere informazioni sui propri cittadini per servirli (lo si consideri scritto a penna), osservarli e controllarli (sia scritto a matita, e comunque è una semplificazione funzionale). La formula tecnicamente più efficace per riuscire nel controllo era instaurare un regime, e quello dittatoriale si prestava meglio di quello democratico. In un qualche modo, tutti i regimi che raccoglievano dati sui propri cittadini avevano qualcosa in comune: il cittadino non era contento. In particolare nei regimi democratici era vissuto come una violazione della libertà personale il fatto che lo Stato entrasse in determinate sfere della nostra vita.

02vannini30fbGli Stati non hanno ancora risolto il problema, anzi i casi Assange e Snowden, tra gli altri, sono lì a testimoniare l’atteggiamento delle democrazie più solide, mature e libere. Ma ci sono nuove entità sovranazionali che l’hanno fatto: in cambio di servizi, intrattenimento e shopping, i cittadini loro concedono tali e tanti dati personali da far impallidire i dittatori più voraci. Hanno popolazioni che superano la Cina, rispondono alla sola legge del profitto e si chiamano Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft (e altri). Anche WhatsApp (fa parte del mondo Facebook) è tra questi. WhatsApp raccoglie una quantità di dati sui suoi utenti che basterebbe al Comune di Milano, dotato di saggio stratega, per programmare un salto in avanti rapidissimo in molti servizi.

Nello scaricare WhatsApp sul proprio smartphone, ogni utente accetta di trasmettere il proprio numero di telefono, posizione, stato, e altro; WhatsApp non archivia “i messaggi (compresi chat, foto, video, messaggi vocali, file, e informazioni sulla posizione condivise)” salvo eccezioni, ma acquisisce informazioni sull’utilizzo dei servizi, vicino a chi ci si trova, e altro.

Scrivono sul loro sito: “WhatsApp comprende la modalità di utilizzo dei propri Servizi da parte delle persone e analizza e usa le informazioni a sua disposizione per valutare e migliorare i Servizi stessi, fare ricerche, sviluppare e testare nuovi servizi e funzioni e individuare e risolvere i problemi” (1). In pratica, quello che il Comune di Milano deve fare per il cittadino: se a “WhatsApp” sostituiamo “Beppe Sala” funziona, ma chi possiede i dati? WhatsApp sì, il Comune di Milano ‘ni’, o almeno non quelli di WhatsApp (e viceversa).

E ancora: “WhatsApp utilizza i cookie per rendere disponibili, fornire, migliorare, comprendere e personalizzare i Servizi”. Ma se WhatsApp uguale Comune, “cookie”(2) uguale cosa? La combinazione di IoT (Internet of Things), smartphone e altri dispositivi mobili, sensori, connettività, capacità di memoria e di elaborazione combinate insieme ci aiutano a riconoscere che una Smart City ha come ‘cookie’ gli autisti dei mezzi pubblici in servizio, le scuole, le biblioteche, gli ospedali e tutto il patrimonio edilizio taggabile per tipologia, le prescrizioni dei medici di base e i referti del pronto soccorso, i mezzi dell’Amsa, i cavi e ogni tipo di condotta sotterranea, le centraline antismog, le telecamere dell’Area C, gli interventi per incidente della Polizia Municipale, gli studenti, il peso dei rifiuti e altri innumerevoli elementi. Non tutti per la verità sono nella disponibilità del Comune di Milano, per vari motivi, principalmente riconducibili a tecnologie da dispiegare e/o agli accordi sulla privacy con il soggetto effettivamente titolare di raccolta e trattamento dei dati stessi.

Il Comune di Milano prenda nota. WhatsApp ha in tempo reale una tale vastità di dati, offertigli spontaneamente dai cittadini, che basterebbe a fare illuminare uno stratega che progetti Smart City. I dati sono un patrimonio inestimabile se vengono usati per il bene pubblico in modo efficace. Per questo, si deve ripartire dalla raccolta.

  1. Operare un cambio di cultura del dato negli apparati amministrativi pubblici deputati a governarlo: i dati sono indispensabili e hanno un valore che non riguarda solo il poterne disporre ma anche precisione e tempismo con cui se ne dispone. Ci vuole un radicale cambiamento di passo: fornire dati per un cittadino alla P.A. non deve mai più essere percepito come pesante, ambiguo, complesso, ma deve e può essere trasformato in un piacere e inserito in flussi organici pronti all’uso.
  2. Il Comune di Milano deve collegare i diversi soggetti che raccolgono dati sui cittadini per trasformare i dati in informazioni e quindi in servizi, in benessere, in miglioramento delle condizioni di vita, lavoro, studio. Questi soggetti sono le diverse entità amministrative a ogni livello, le controllate e partecipate, le società affidatarie di servizi pubblici, assegnatarie di appalti, concessionarie di servizi, e tutte le altre possibili. Si deve attivare un’alleanza virtuosa della trasformazione del dato da elemento compartimentalizzato a patrimonio al servizio della ricchezza e del benessere della città metropolitana. Una rivoluzione buona della privacy.
  3. Operare da strateghi nel dispiegare tecnologie esistenti, per lo più economicamente accessibili, in modo da rendere intelligenti gli oggetti immobili e mobili che possono risultare preziosi nell’attuazione di un programma data-to-wisdom, di trasformazione del dato in saggezza a tutto beneficio di Milano.

Poi, per evitare l’errore di cedere “tutto di sé inconsapevolmente in cambio di servizi (magari pagati), subendo in cambio condizionamenti in grado di cambiare la sua vita, le sue aspettative, i suoi consumi, le sue opinioni” (3), potremmo pensare a una nuova forma di cooperazione (una privacy-tax?): “Caro Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft e tutti, se raccogli dati sui miei cittadini, informali che li utilizzerò in modo anonimo e sicuro per migliorar loro la vita: tu continua pure a raccoglierli per fare fatturato, noi pensiamo a tutto ciò che non si può comprare con una carta di credito. Basta una riga in più nelle tue voraci condizioni da accettare per averti.”.

Giovanni Vannini

 

(1) https://www.whatsapp.com/legal/#privacy-policy-information-we-collect sezione “Informazioni raccolte”, primo comma e segg. (consultato il 16 settembre 2016
(2) biscottini informatici per la profilazione utenti; Treccani “è usato in alcuni casi per favorire l’interattività, in altri per ottenere informazioni in modo surrettizio. http://www.treccani.it/vocabolario/cookie/ (consultato il 18 settembre
(3) Luca Beltrami Gadola in UN SINDACO DEI DEBOLI AL TEMPO DELLA DATOCRAZIA

 



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